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21 Agosto 2024
Ultima modifica: 21 Agosto 2024 ore 10:24

A Ischia offriamo una seconda possibilità

La storia di Nadia e Riccardo: una famiglia terapeutica
A Ischia offriamo una seconda possibilità
Che ci fa una casa intitolata a don Oreste Benzi nella nota isola meta del turismo internazionale, tra yacht, parchi termali e baie da sogno? Siamo andati a scoprirlo ed ecco chi abbiamo incontrato.
Arrivando d’estate al porticciolo di Forio ad Ischia, ci si immerge nel brulicare di persone di ogni età, estrazione sociale, lingua, venute ad esplorare quest’isola carica di storia e bellezze naturali. Una vegetazione rigogliosa, nell’aria il profumo di fichi e di limoni.
Ad attenderci c’è Riccardo Corso, 47 anni, toscano di origine, che con il pulmino si inerpica sul monte di Panza fino alla casa “Don Oreste Benzi”, di cui è responsabile con la moglie Nadia Barra, 45 anni, piemontese. 
Varcando il portone, il mondo vacanziero si lascia alle spalle. Ci accoglie un gruppetto di ragazzi. C’è chi è intento a fare giardinaggio, altri giocano con i bambini. Un signore sorridente si offre di prepararci il caffè. Poi un momento di preoccupazione: si avvicina con passo lento una grossa macchia nera, è Golia, uno dei tre cani di razza corso. In realtà è buonissimo. Anche lui ha un ruolo in questa grande famiglia che mette assieme una coppia, cinque figli di età compresa tra i 6 e i 15 anni, alcuni giovani provenienti dal mondo delle dipendenze. 

Un percorso, quello di Nadia e Riccardo, che prima di approdare su quest’isola ha anche attraversato l’Oceano.
Entrambi vengono da un passato giovanile piuttosto tortuoso, poi le loro strade sono incrociate, grazie all’incontro con la Comunità Papa Giovanni XXIII. Nel 2008 il matrimonio, nel 2012 un viaggio a Lourdes intensifica la scelta di fede: decidono di rendersi disponili ad andare dove il Signore li chiama. Così, nel 2014, arrivano in Patagonia, a Puerto Madryn, dove accolgono persone con problemi di dipendenza da alcol e droghe. Nel 2019 una nuova chiamata: Ischia. «Avevamo il desiderio di tornare in Italia per avvicinarci alle famiglie di origine. Non pensavamo di finire su un’isola» scherzano.

Qui, oltre ad accogliere, mettono a frutto le loro passioni. Riccardo, ex marmista, amante dell’aerografo, è un lavoratore gioviale e creativo. Nel laboratorio di falegnameria, con i ragazzi crea oggettistica e ogni anno, in occasione del Natale, costruiscono un presepio sempre più grande che la gente del posto va a visitare. Nadia è solare, attenta all’ambiente, produce cosmetici con prodotti naturali grazie a un corso frequentato in Argentina. Suona la chitarra e canta: una passione che coinvolge i ragazzi in programma terapeutico. 
Nella casa “Don Oreste Benzi” tutto appare naturale, ma agli occhi del mondo mettere assieme bambini, adolescenti e giovani con problemi di dipendenza, potrebbe sembrare una pazzia. 
Dubbi ai quali Nadia e Riccardo accettano di rispondere. 

Ischia casa famiglia anima la messa

Di solito si insegna ai propri figli a stare lontani da quelli che hanno problemi di dipendenza, voi invece ve li siete portati in casa. 


«Non nascondiamo che ci possono essere difficoltà, ma proprio perché viviamo tutti assieme abbiamo la situazione sotto controllo. I ragazzi accolti qui accettano che ci siano delle regole da seguire. Ma in realtà sono loro i primi ad avere bisogno di una famiglia, proprio per il loro vissuto difficile.» 
 

Le altre famiglie come vi vedono?


«In occasione di uno dei primi compleanni che abbiamo organizzato quando siamo arrivati, alcune mamme avevano paura a mandare i loro figli in una “casa con i tossicodipendenti”. Poi una di loro ha deciso di fidarsi. La festa è riuscita bene e da allora qui ci sono sempre ragazzini.» 
 

Non vi sentite di avere in qualche modo imposto ai vostri figli questa scelta?  


«No. In fondo anche noi abbiamo dovuto accettare le scelte fatte dai nostri genitori. Poi, quando i figli crescono, li coinvolgiamo nelle decisioni. Accogliere, per loro, è un dono: in fondo hanno sempre qualcuno che gioca con loro, e noi genitori molto presenti. In alcuni momenti della nostra storia abbiamo anche chiesto se preferivano che continuassimo ad accogliere o invece andassimo a lavorare all’esterno come in una normale famiglia. Per loro non c’è stato alcun dubbio: vogliono che teniamo aperta la nostra famiglia.»
 

E per i ragazzi in programma, la presenza dei vostri figli è positiva?


«Assolutamente sì. I bambini rompono il ghiaccio, non hanno i filtri di noi adulti e li fanno sentire subito in famiglia. Sono dei facilitatori di relazioni.»
 

Si può dire che la vostra è una famiglia terapeutica…


«Sì, perché è la famiglia che determina i ritmi. Non potremmo imporre ai nostri figli le regole di una comunità terapeutica. Noi facciamo famiglia con i ragazzi. Ci sentiamo una famiglia educante.» 
 

Da chi arrivano le richieste di accoglienza?


«Attraverso il passa parola, amici di amici. Oppure dai servizi sociali che si rivolgono alla Comunità Papa Giovanni XXIII.»
 

Quanto tempo dura il percorso terapeutico?


«Almeno un anno, ma a volte ci vuole più tempo per andare in profondità. Chi fa un bel cammino sta anche 3 o 4 anni.»
 

Chi decide quando il percorso è concluso?


«Lo decidono loro. Noi non abbiamo la bacchetta magica per dire “sei pronto” oppure no. Poniamo delle domande per farli riflettere.»
 

Cosa succede se vanno via prima di “essere pronti”?


«Devono affrontare le difficoltà da soli, assumendosi le proprie responsabilità. Ma rimaniamo per loro un riferimento. Qualche giorno fa abbiamo incontrato in una pizzeria, dove stava lavorando, uno dei nostri ex ragazzi che aveva interrotto il programma, e i nostri figli sono andati subito ad abbracciarlo. La cosa fondamentale è far capire loro che questa è una famiglia dove possono sempre tornare.»
 

C’è un criterio di selezione per decidere chi può accedere alla vostra “famiglia educante”? 


«Qui arriva un po’ di tutto, in particolare chi ha bisogno di un’esperienza di vita. Alla fine facciamo gruppo non solo con i ragazzi in recupero, ma con tutti quelli che desiderano fare un cammino con noi: il volontario di turno, la persona in servizio civile, è un’esperienza insieme a 360°.»
 
Orto della casa famiglia a Ischia

Che attività svolgete durante il giorno?


«Non c’è proprio uno schema fisso. Si svolgono vari compiti in base a dei turni: orto, giardino, pulizie, pranzo, falegnameria, poi c’è il momento del quaderno.»
 

Sarebbe?


«È uno strumento in cui i ragazzi in programma scrivono le proprie emozioni, i vissuti. È privato e personale, possiamo leggerlo solo noi responsabili. A volte, se ci viene dato il consenso, può essere spunto per condividere dei temi nel gruppo di confronto. Quando c’è bisogno ci avvaliamo anche di supporto psicologico con specialisti esterni.»
Ospiti della casa famiglia di ischia scrivono

 

Il rapporto con il territorio? 


«Non è sempre semplice, perché siamo visti come una realtà piuttosto insolita. Però siamo bene inseriti nella parrocchia, animiamo i canti delle messe e l’adorazione ogni mercoledì sera, partecipiamo attivamente a varie iniziative religiose che qui sono molto sentite. Facciamo parte anche di un coordinamento di associazioni.»
 

La cappellina che funzione ha nella casa?


«È il centro della casa e vorremmo che lo fosse anche della famiglia… ma possiamo fare meglio.»
 

Toscana, Piemonte, Argentina, Ischia… Progetti per il futuro?


«I miei genitori vorrebbero che tornassimo in Piemonte – dice Nadia – per godersi un po’ i nipoti che non hanno potuto veder crescere. Ci stanno addirittura costruendo una casa per accogliere tutti, persino eco sostenibile… Vedremo. Quello che abbiamo chiaro è che il Signore ci ha presi per mano e ci ha dato una seconda opportunità, ed è quella che anche noi vogliamo continuare a dare a chi per vari motivi ha smarrito la strada. Dove? Solo il buon Dio lo sa.»