In occidente la stragrande maggioranza delle persone non segue alcuna pratica religiosa. Serve davvero a qualcosa essere cristiani? Mario Gazzotti, che vive un'esperienza ecumenica in Svezia insieme alla sua famiglia, cerca di rispondere partendo da alcune riflessioni di Papa Francesco
Vorrei condividere con voi una domanda che forse può sembrare un po’ blasfema: «a che cosa serve la religione cristiana?». Domandarsi «a cosa serve» è un genere di domanda che non ci si fa.
Da 3 anni
viviamo in Svezia in una parrocchia luterana per un’esperienza ecumenica. Siamo ospiti, accolti da fratelli cristiani di un’altra tradizione. Stiamo cercando di imparare insieme come essere cristiani oggi in una società fortemente secolarizzata come è quella svedese. Questa è la terra sulla quale i nostri piedi camminano, il nostro cuore batte e la nostra mente pensa.
Da questa nostra esperienza di vita è scaturita questa riflessione, perché ogni giorno cerchiamo di vivere il dialogo con persone di altre culture, tradizioni e religioni.
Credere serve a qualcosa?
Nel contesto delle società occidentali questa domanda sia legittima ed interessante per il fatto che
la stragrande maggioranza delle persone non segue una pratica religiosa anche se magari ha una loro personale forma di spiritualità. Chiedersi quindi cos’è la religione e nello specifico “a che cosa serve” può aprire riflessioni forse inedite.
Mi pongo questa domanda davanti all’enciclica
Fratelli tutti di papa Francesco che va letta nel contesto più ampio della
Laudato sii.
Se volessimo estrarre dal documento del papa uno dei concetti chiave potremmo forse dire che papa Francesco sostiene che le religioni – cristianesimo compreso – hanno I’obiettivo di «renderci più fratelli e sorelle».
Certamente
le religioni hanno un fine ultramondano, che guarda cioè alla vita dopo la morte; ma esse hanno anche
un ruolo e un compito nella vita presente. Il testo del papa sembra dire addirittura che solo nella misura in cui le religioni realizzano il proprio compito in questa vita esse realizzano la propria missione per la vita ultraterrena. In altre parole: le religioni sono credibili solo se in qualche modo realizzano già qui ed ora ciò che promettono per l’aldilà.
La vigilanza sulla nostra religiosità è il presupposto per accogliere persone di altre tradizioni e religioni con il desiderio di imparare in questo incontro a praticare la fraternità
Con questa posizione il Papa afferma una cosa quanto mai interessante per un leader religioso: l’esperienza religiosa non va assolutizzata, ma collocata nella storia concreta delle donne e degli uomini e del loro anelito di pace.
La fraternità (essere fratelli) e la sororità (essere sorelle) sono l’obiettivo, il fine, lo scopo delle religioni e non viceversa. Spesso la parola fraternità viene utilizzata per gruppi circoscritti di persone per tracciare un confine che separi dagli altri (pensiamo per es. all’uso all’interno delle massonerie). Il papa ci invita a recuperare il significato universale della parola, così come san Francesco amava utilizzare. Tutte le creature sono fratelli e sorelle. Importante recuperare anche la declinazione femminile di questo termine poiché uomini e donne abbiamo respiri diversi. Per questo parliamo anche di sororità.
Essere fratelli e sorelle non è solo un dato di fatto, ma realtà da costruire. Fratelli e sorelle lo si è, ma ancor di più lo si diventa. Siamo chiamati a diventarlo.
Un’esperienza religiosa che non porti verso questo fine non è secondo Dio, scrive il Papa.
Così facendo papa Francesco relativizza la religione che non è fine a se stessa. Essa è uno strumento per realizzare il Regno di Dio dove tutte e tutti impariamo a trattarci da fratelli e sorelle, credenti e non credenti, nel rispetto di tutte le creature.
Dovremmo a questo punto anche riflettere sull’uso che facciamo nei diversi contesti associativi del termine fratelli?
A cosa serve la preghiera? A diventare sempre più capaci di amare
D’altra parte il papa ci ricorda che l’esperienza religiosa, quando è autentica, può essere un grande aiuto nel cammino verso la fraternità. Prendiamo ad esempio la preghiera. Essa è uno strumento potentissimo a patto che comprendiamo che essa non serve a far cambiare idea a Dio o cambiare gli altri, ma ha
lo scopo primario di cambiare il cuore di colui e colei che prega e renderlo un cuore
capace di amare. L’esperienza di fede all’interno di una religione è uno strumento straordinario a patto che rimanga uno strumento. Un mezzo e non un fine. Cosa significa? Che il nostro fine non è diventare sempre più religiosi, ma
sempre più umani, capaci di un amore vero senza confini.
La stessa umanità che Gesù ha assunto incarnandosi e che ha praticato con tutta la sua vita di servo. La tradizione delle Chiese orientali parla della “divinumanità” di Gesù. Questo termine ci dice in modo inequivocabile che in Gesù e nei credenti umanità e divinità non sono da contrapporre, ma più ci avviciniamo a Dio più diventiamo davvero umani.
La parabola del buon Samaritano e i rischi delle persone religiose
Queste affermazioni del papa sono biblicamente molto fondate. Prendiamo uno dei brani evangelici più famosi: il testo del buon samaritano.
Gesù non ci indica a modello delle persone religiose e devote (sacerdote e levita), ma uno straniero di un popolo ritenuto eretico, impuro (al quale secondo le indicazioni religiose del tempo non si poteva neppure rivolgere la parola!) ma capace di sentire compassione e di prendersi cura del malcapitato. La loro religiosità non li ha fatti diventare capaci di sentirsi fratelli del malcapitato. Anzi! Lo hanno visto e lo hanno scansato. Gesù stigmatizza così i rischi delle persone religiose: separare, dividere gli uni dagli altri, chiamare fratelli solo alcuni.
Spesso dimentichiamo che
i vangeli sono pieni di avvertimenti sul rischio di essere persone religiose. Gesù si è scagliato con forza contro i precetti religiosi che rendevano schiave le persone: con i suoi miracoli ha violato ripetutamente il sabato, violato le leggi sulla purità rituale frequentando persone escluse perché ritenute impure, ha accolto donne come discepole, etc. Per questo le massime autorità religiose del suo tempo hanno voluto il suo omicidio. E lo sappiamo quanto le guerre sono state giustificate e sostenute da persone religiose! Il vangelo – che su questo riprende ampiamente la predicazione dei profeti – ci mette in guardia, ci chiede di vigilare sulla nostra esperienza religiosa.
Essere religiosi è uno strumento, non un fine
Occorre essere sempre vigilanti sulla nostra religiosità. Che non ci accada di dimenticare che la nostra pratica religiosa deve farci diventare persone migliori, più capaci di farci fratelli e sorelle a 360°. Abbattendo ogni staccato, ogni divisione, ogni inimicizia.
Essere religiosi è uno strumento, non un fine. Il fine è «avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5).
Questa vigilanza sulla nostra religiosità è il presupposto della
capacità di accogliere persone di altre tradizioni e religioni con il desiderio di imparare in questo incontro a praticare la fraternità e la sororità.
La strada è il dialogo. Diventare sinceramente desiderosi di conoscere l’altro/a. «Raccontami perché fai questo aiutami a capire».
Possiamo a questo punto condividere alcune domande:
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La nostra vita cristiana ci sta facendo crescere nella capacità di diventare piú fratelli e sorelle?
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Cosa in concreto ci sta aiutando?
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Cosa non ci sta aiutando?
E ancora, possiamo chiederci: Cosa ho imparato dalle persone di altre tradizioni e religioni? Desidero imparare?
Che il buon samaritano interceda per noi!