Il 18 novembre 1920 in Russia il Commissario Popolare della Salute del Popolo ed il Commissario Popolare della Giustizia del Popolo emanarono un decreto congiunto «Sulla protezione della salute delle donne», che proclamava che l’aborto era libero e gratuito.
Le giustificazioni per l’aborto legale erano in buona parte le stesse di oggi, l’aborto di Stato era motivato come forma di emancipazione delle donne e tutela della loro salute,
come scrivono Daniel Gaido e Cinzia Fencia.
In realtà era innanzitutto cambiata la scala dei valori: per l’ideologia sovietica (comunista) il valore supremo era il lavoro in fabbrica, la produzione, uomini e donne valevano innanzitutto se facevano parte della classe operaia, i figli che intralciavano il ruolo della donna come lavoratrice andavano scartati.
L’aborto rende le donne più libere?
100 anni dopo possiamo dire che le donne sono più libere ed emancipate grazie alle leggi sull’aborto, che è stato legalizzato negli ultimi decenni in gran parte del mondo?
Le storie che come Comunità Papa Giovanni XXIII abbiamo conosciuto in questi anni, rispondendo alle richieste di aiuto che arrivano al
numero verde o al numero whatsapp ci fanno dire che
l’aborto è una nuova forma di schiavitù delle donne del XX e del XXI secolo, più insidiosa di quelle del passato perché presentata come opzione, possibilità, libera scelta.
Non per nulla una delle leader del movimento femminista statunitense del secolo scorso, Alice Stokes Paul, definì l’aborto «la forma finale di sfruttamento delle donne».
Quando la gravidanza non ha le caratteristiche previste da questa società (in sostanza se la donna non è in grado di farsi carico per intero del bimbo perché non ha una famiglia, un lavoro stabile, ecc.) il bambino deve essere eliminato.
In questi anni non abbiamo incontrato libertà ed autodeterminazione, ma
solitudine, abbandoni, ricatti, violenze, disistima e un mare di indifferenza della società e delle istituzioni verso la mamma ed il bambino.
Una storia vera: Irene, costretta ad abortire
Proprio in questi giorni ci ha chiamato Irene (nome di fantasia), 19 anni, incinta al secondo mese, per chiederci aiuto per continuare la gravidanza.
Desiderava accogliere questo bambino. Viveva con un ragazzo, che le ha detto che se non avesse abortito l’avrebbe lasciata. Lei non sapeva dove andare. I genitori di lei e di lui le avevano detto che l’unica scelta per lei era di abortire.
Irene aveva chiaro che stava subendo una pesantissima violenza psicologica ma non ha avuto la forza di ribellarsi. Una delle volontarie del Numero Verde ha passato ore con lei, telefonate, messaggi, audio… e poi disponibilità all’accoglienza, a visite mediche, ad aiuti economici e materiali in rete con altre realtà. Irene ha condiviso le sue angosce, il suo buio, perfino i suoi desideri di morte, vista come unica strada per uscire da una situazione da incubo.
E nel frattempo continuava a pensare al bimbo. Anzi alla bimba, perché già la sognava così, monella come lei da piccola. A un certo punto ha provato anche a ribellarsi, a scappare da un parente, ma anche lì muri alzati. È dovuta tornare dal suo compagno, che l’ha ripresa a condizione che abortisse.
Come un animale in gabbia, pochi giorni fa Irene ha abortito. Sua figlia non c’è più,
lei vive un dolore immenso, e gli altri attorno, sollevati per il problema risolto,
se ne lavano le mani in nome della libera scelta. Tutti fanno a gara per non vedere le nuove schiave che sono in mezzo a noi.