Crisi economica, isolamento sociale, paura per il futuro, terrore di ammalarsi. Sono molti i fattori che hanno destabilizzato mentalmente durante gli scorsi mesi di lockdown. A fare il punto sono gli psichiatri nel corso di un Convegno Internazionale sulle tematiche legate al suicidio, organizzato dalla Sapienza Università di Roma, in occasione della Giornata Mondiale per la prevenzione del suicidio del 10 settembre.
Da marzo a oggi infatti, in Italia si sono registrati 71 suicidi e 46 tentati suicidi, a fronte di un numero di suicidi che nello stesso periodo del 2019 si attestava a 44 e quello dei tentati suicidi a 42.
Secondo gli esperti quindi l'impennata sarebbe dovuta proprio alla pandemia.
A confermare questa ipotesi anche il raddoppio delle chiamate a Telefono Amico Italia. Inoltre - altra aggravante - proprio nel periodo in cui si è regiastrata una maggior richiesta di aiuto, c'erano le maggiori difficoltà a raggiungere i centri preposti, sia per le chiusure che per la paura di essere contagiati.
Che cosa sappiamo del suicidio? C'è chi parla di depressione, chi di malattia mentale in generale. C'è chi dice che è una libera scelta. Chi non ne vuole parlare affatto.
Si può prevedere se una persona tenterà il suicidio? Se riuscirà a togliersi la vita? Ma davvero chi ne parla non lo mette in atto?
Sono più i giovani o gli adulti?
In realtà ci sono tanti luoghi comuni sul suicidio, tante false credenze. Abbiamo sentito il parere del Prof. Emanuele Toniolo, Psichiatra, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell'Azienda ULSS 5 Polesana e professore di Psicopatologia Generale allo IUSVE di Mestre.
Si pensa comunemente che le persone che commettono il suicidio raramente parlano delle loro intenzioni e del loro intento; se lo dicono non lo fanno. È così?
«No, al contrario, esse inviano spesso dei segnali verbali della loro intenzione. Ci sono studi che riportano che almeno 2/3 degli individui deceduti per un suicidio avevano espresso la loro intenzione di togliersi la vita. Oltre a questo, molte persone sono indecise sul vivere o sul morire e “scommettono” con la morte, lasciando agli altri il compito di salvarli. Quasi nessuno commette il suicidio senza lasciar sapere agli altri come si sente. I dati ci dicono che le femmine lo comunicano di più rispetto ai maschi, e che gli anziani lo comunicano meno rispetto ai giovani».
Però una volta che uno tenta ha una specie di "catarsi", quindi dovrebbe essere meno probabile che commetta ancora il gesto...
«Anche questa è una credenza non completemente corretta. Se si può sostenere che il periodo successivo al tentativo fallito è a più basso rischio, si hanno invece indicazioni precise che molti suicidi avvengono nell’ambito dei 3 mesi che seguono l’inizio del “miglioramento”, quando l’individuo ha l’energia sufficiente per mettere in atto i suoi pensieri».
Si può dire che chi commette un suicidio ha un disturbo mentale?
«La malattia mentale è un fattore di rischio. Più che un rapporto di causa effetto però, sembrerebbe piuttosto il coesistere delle due dimensioni, quella del disturbo psichiatrico e quella della suicidalità, che possono rinforzarsi a vicenda. Lo studio di centinaia di note lasciate da chi si suicida indica che, sebbene la persona sia molto infelice, non rappresenta necessariamente un malato mentale. In ogni caso non c'è mai un unico motivo per cui una persona si uccide, ma più cause che sono fattori di rischio».
E i media? Forse sarebbe meglio non parlarne, per non incentivare a commettere il gesto... che ne pensa?
«Esistono i "suicidi fotocopia", è vero, soprattutto quando si suicida un personaggio famoso. I tedeschi hanno valutato che l'effetto dura 30 giorni. Ma non perché sentendo del suicidio ad uno è venuto in mente di suicidarsi, piuttosto gli è venuto in mente "come suicidarsi"».
Pare di capire che non si possa fare nulla? Che non si può fermare una persona che vuole uccidersi?
«Se le persone in crisi ricevono l’aiuto di cui hanno bisogno è meno probabile che tentino il suicidio di nuovo».
Ma è un compito solo dei professionisti?
«La prevenzione del suicidio coinvolge tutti, ogni persona può contribuire a prevenire tale comportamento».
Ci sono segnali che indicano un maggiore rischio?
«Sì, certo, sono conosciuti in letteratura: cambiamenti nell’andamento al lavoro o a scuola, una chiusura relazionale coi familiari o con gli amici, la perdita di interesse nelle attività che prima piacevano, una certa trascuratezza nell’immagine di sé; ma ci sono anche altri sintomi come difficoltà nel sonno, irritabilità; o particolari discorsi come quelli sulla morte o su persone che si sono suicidate, o una marcata mancanza di speranza nel futuro».
Qual è l'atteggiamento migliore da tenere se si sospetta che un conoscente sia a rischio di suicidio?
«Un atteggiamento calmo e tollerante, che non ha paura di affrontare l'argomento seriamente e che non cerca di minimizzarlo o di ottenere false rassicurazioni. Poi ovviamente non si deve temere di inviare la persona ai servizi competenti».