Quando si parla di prostituzione ci si concentra sulle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico o sulle donne sfruttate. Ma il cliente ha un ruolo fondamentale. Uno di loro ci racconta il suo percorso verso la consapevolezza.
Andare a prostitute non è uno sport: ci si muove fra mafia nigeriana (che gestisce traffici internazionali di prostituzione e droga), Black Axe, madame e riti vodoo.
Recentemente l’attenzione dei media sui clienti che amano
andare a prostitute è cresciuta. Difficilmente si parla però del fatto che la tratta a scopo di sfruttamento sessuale coinvolge tanti intermediari, anche italiani: quelli che affittano appartamenti alle madame o ai papponi, quelli che portano le vittime sul tratto di marciapiede a cui sono destinate, quelli che gestiscono trasferimenti di denaro col prestanome. Tutti complici.
Ma soprattutto ci si dimentica di chi sostiene il più grande supermercato del mondo basato sullo sfruttamento sessuale:
il cliente delle donne costrette alla prostituzione, come è raccontato ad esempio nel libro
Non siamo in vendita.
Senza di lui, l’industria del sesso crollerebbe. Una vasta platea di uomini di tutti i tipi e di tutte le età, spesso sposati o fidanzati, consumatori abituali di sesso a pagamento quasi fosse una droga, che spendono soldi e si espongono a rischi di salute pur di possedere un corpo.
I volontari delle Unità di strada organizzate dalla Comunità Papa Giovanni XXIII – 30 in tutta Italia – ne incontrano tanti sulle strade, altri si rivolgono all’associazione per chiedere aiuto. Tra di loro anche
Fabio, campano, sposato e padre di due figlie.
Ecco la sua storia.
Andare a prostitute, l'intervista
«Tutto è iniziato dopo pochi anni che mi ero sposato per scappare dall’oppressione dei miei. Vivevo tutto per il senso del dovere. Volevo la libertà, invece mi trovavo di nuovo incatenato dalle responsabilità. Così ho iniziato a farmi di cocaina. Di nascosto».
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Tua moglie non se n’era accorta?
«No, non c’era un dialogo quotidiano: l’ho usata per andare via dalla mia famiglia, non c’era amore. Io sapevo solo comprarle le cose. Avevo un esercizio commerciale che mi faceva guadagnare bene. Non mi mancava niente ma arrivavo a casa per cena, mangiavo e poi uscivo a cercare la coca. Non mi occupavo nemmeno delle mie figlie. Mia moglie per tanto tempo pensava che io avessi un’altra donna. Poi un giorno ho lasciato tutto. Sono andato via con i soldi che avevo nel conto.»
Per andare dove?
«Una persona mi aveva parlato di Rimini, dei night e dei locali per scambi di coppie. Un altro mondo dove nulla è proibito. Cocaina, alcool e sesso mi davano adrenalina. Ed erano tanti come me che di giorno lavoravano e di notte vivevano una doppia vita. Il desiderio del proibito era più forte di tutto il resto».
Non siamo in vendita
Il libro di Irene Ciambezi
Chi erano le donne che pagavi?
«Erano rumene e albanesi bellissime, molto giovani. Di loro ai clienti non importava nulla. Non dovevano parlare, dovevano fare quello che chiedevamo. Non c’era voglia di raccontarsi. Chi va dalle prostitute non si fa tante domande: si dà come scusa che loro lo fanno per mestiere. Non vede che indossano una maschera per mostrarsi come il cliente le vuole. Ha bisogno di sfogarsi psicologicamente e fisicamente.»
Anche tu facevi così?
«Sì, ogni volta che mi sono avvicinato ad una donna l’ho maltrattata e violentata considerandola un mio oggetto. Solo dopo l’esperienza in carcere e poi in una comunità di recupero – mi avevano beccato con un gran quantitativo di cocaina – ho ripensato a tutti quegli incontri e ho capito che ogni prostituta era costretta psicologicamente ad essere sottomessa perché avevo pagato. Di fatto c’è uno sdoppiamento: all’inizio queste donne vorrebbero rifiutarti ma poi cedono. Mentalmente non sono lì con te. C’è solo il loro corpo, il resto della persona si isola con le sostanze o l’alcool. Per forza! Si devono spegnere, devono estraniarsi. Vivono una doppia violenza: di chi le sfrutta e di chi le compra.»
C’è chi pensa che bastino le bambole gonfiabili, come negli ultimi tentativi di “case chiuse” con sexdolls a Torino e a Modena.
«Quando arrivi a pagare per un rapporto sessuale non è solo per lo sfogo dei genitali. La donna in carne ed ossa deve essere un contenitore di rabbia e vendetta. Il cliente non vuole stare alle regole di una casa chiusa o fare attenzione a non sciupare la bambola che usa. Vuole fare del male e non solo raggiungere l’orgasmo. Nel mio caso con le prostitute mi vendicavo di mia madre, di mia moglie… ero cresciuto con un odio verso il mondo femminile, quel corpo doveva pagare la mia sofferenza. I clienti di strada ma anche quelli che cercano prostitute di “alto rango” sono sempre persone deprivate di affetti nell’infanzia oppure oppressi dalla figura femminile»
Ma se è davvero così forte il bisogno di esercitare potere sul corpo della donna, una legge regolamentarista non funzionerebbe?
«Chi vuole regolamentare la prostituzione non coglie che l’uomo che acquista sesso abitualmente ha fatto una scelta: soddisfare il desiderio di fare del male. Tutto è mosso dal senso del possesso e dall’idea di non essere in grado di conquistare una donna, di portare avanti una relazione, di presentarsi col proprio aspetto fisico. E l’insoddisfazione dell’uomo deve trovare una risposta. Non è detto che basti quel che si contratta all’inizio della prestazione. Per questo ogni rapporto è uno stupro».
Fino a dove può spingersi un cliente per il proprio piacere sessuale?
«Non c’è limite a quello che si può chiedere, perché la rabbia non ha limiti. Cadono tutti i freni inibitori e si cercano tutti i tipi di rapporti per uscire dalla propria deprivazione. Nemmeno il rischio delle malattie infettive t’interessa più. Sei disposto a pagare 150, 200 euro per un rapporto non protetto, perché quando arrivi a comprare il corpo della donna non hai paura di morire ma hai paura di vivere. Si può arrivare anche ad uccidere. Di fronte al rifiuto non hai più il controllo. Pensi: “Se ho speso soldi non mi puoi dire di no. Non voglio limiti se compro”».
Non siamo in vendita
Il libro di Irene Ciambezi
La legge francese sulla prostituzione dal 2016 prevede sanzioni ai clienti e corsi di sensibilizzazione su violenza di genere, sfruttamento della prostituzione, tratta. Che ne pensi?
«Credo che la maggior parte dei clienti non conosca la verità sulle donne che si prostituiscono. Gli va spiegata e raccontata con testimonianze dal vivo. Un percorso riabilitativo è fondamentale. La multa da sola non basta. Ci vorrebbe addirittura il carcere almeno per 6 mesi e un percorso di recupero in comunità. Per me è stato decisivo soprattutto incontrare le vittime di tratta con le unità di strada della Comunità di don Oreste. Mi ha aiutato a toccare con mano la vergogna e a trovare il coraggio di dire che i clienti vanno fermati.»
Prostitute: i clienti protagonisti
Il libro Non siamo in vendita raccoglie alcune storie di donne che si prostituiscono in Italia: raccontano come sono arrivate in strada, le violenze subite, la rete dei trafficanti e quantificano il debito in denaro che sono costrette a ripagare.
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