In Brasile le nuove generazioni stanno pagando un tributo altissimo al Covid-19. Dall’inizio della pandemia il virus ha ucciso due bambini con meno di cinque anni al giorno, portando a oltre 1.400 il numero delle piccole vittime.
Privati della scuola in presenza per due anni, molti hanno inoltre finito per abbandonare gli studi ingrossando le fila del lavoro minorile che, secondo l’UNICEF, interessava già prima della pandemia più di 1,7 milioni di bambini e adolescenti.
«In tutto il paese la manodopera infantile è sfruttata in modo indiscriminato», afferma Lia Queiroz, che da oltre 20 anni si spende insieme alla Comunità Papa Giovanni XXIII per la tutela dei diritti dei bambini nello stato del Minas Gerais in cui vive.
«Vediamo bambini ai semafori, nelle discariche, nei mercati, ai ristoranti, impiegati in agricoltura, nelle aziende e perfino in casa. Anche lo sfruttamento sessuale è considerato un lavoro».
Il fenomeno ha radici sociali e culturali.
«Spesso sono i genitori stessi a far lavorare i figli perché contribuiscano alle spese familiari — spiega Lia — e lo fanno in maniera indisturbata visto che mancano politiche chiare a contrasto di queste violazioni. Purtroppo i danni psicologici e fisici possono essere rilevanti. Assistiamo per esempio a un’innaturale inversione dei ruoli, per non parlare poi dei tanti bambini che rimangono mutilati a causa di incidenti sul lavoro o che vengono abusati».
La pandemia ha reso i minori ancora più soli di fronte alla violenza, sia quella di strada, tra le bande armate, sia quella ricorrente tra le mura domestiche.
Secondo l’ultimo Annuario Brasiliano della Pubblica Sicurezza, nel 2021, 7 bambini e adolescenti al giorno sono morti per cause violente. Si stima inoltre che le vittime di stupro di età compresa tra 0 e 17 anni siano state almeno 45.076. In aumento rispetto al 2020 anche le vittime di sfruttamento sessuale, che si attestano a 733.
«Capire il contesto di un abuso è come entrare in un labirinto. Rimanere distaccati è impossibile — ammette Lia — e durante questi anni ho incontrato tante violenze in ambito familiare, bambini trattati come merce, venduti in cambio di una televisione o di cibo».
Abusi sotto gli occhi di tutti, eppure taciuti. «L’omissione e la collusione sono diffuse, anche da parte dei genitori. In certi contesti di emarginazione l’uso del corpo dei bambini è normale, tanto che chi denuncia viene colpevolizzato. Si arriva così al paradosso per cui le vittime si sentono colpevoli».
Aiutarle diventa un dovere morale: «Come Comunità facciamo parte del Forum statale per la difesa dei diritti dell'infanzia e dell’adolescenza e — racconta Lia — nell’ambito del progetto governativo Minas Gerais network affianchiamo inoltre cinque comuni nell’identificazione dei casi di violenza e nel recupero delle vittime».
In Brasile chiunque sia a conoscenza di un abuso commesso nei confronti di un bambino o di un adolescente può telefonare a Disque 100, servizio anonimo e gratuito gestito da operatori specializzati.
«È uno strumento che funziona — commenta Lia —. Noi lavoriamo in centri per ragazzi a rischio e lo usiamo spesso. L’ultima volta abbiamo denunciato l'adescamento di ragazze adolescenti per scopi sessuali e abbiamo identificato i responsabili».
Una volta ricevuta, la segnalazione viene poi inviata al pubblico ministero e al Consiglio Tutelare del comune di competenza che devono avviare le indagini e ufficializzare la denuncia.
Denunciare è il primo passo per spezzare il ciclo della violenza: «Il Consiglio Tutelare è un organo elettivo preposto alla protezione dei minori — spiega Lia — anche se non esiste in tutti i comuni e dove esiste non sempre lavora bene. Ecco perché tra i compiti che ci sono stati affidati come Comunità all’interno del progetto Minas Gerais network c’è quello di aiutare cinque comuni a crearlo e a formarne i consiglieri. Solo così potremo infatti avere la garanzia che le denunce vadano a buon fine».
Una sfida impegnativa che però vale la pena affrontare, perché può salvare giovani vite.
Come quella di Violeta, una ragazza di 25 anni che ha incontrato i volontari della Comunità quando era ancora una bambina. Lo racconta lei stessa:
«Dopo l’abbandono di mio padre, io e i miei sei fratelli siamo rimasti soli con nostra madre disoccupata. È stato un periodo difficile: abbiamo patito la fame, la mancanza di una casa. La mia infanzia è stata rubata. A 10 anni subivo violenze sessuali. Pensavo di non valere niente, di non avere il diritto di essere felice. Grazie al supporto psicologico ho poi capito, con fatica, di non avere colpe e le mie ferite pian piano si sono rimarginate. Oggi sono una donna più forte, anche se ogni giorno devo lottare per trovare un equilibrio: le mie emozioni sono su una ruota panoramica, un’ora sono felice quella dopo triste».
Violeta è riuscita a costruirsi una vita, ha un compagno e tre figli e lavora come donna delle pulizie. Ha iniziato a partecipare attivamente a campagne di sensibilizzazione contro lo sfruttamento sessuale e la violenza sulle donne a Itaobim, la città in cui vive. Racconta ai missionari: «Nonostante tutto sorrido e ogni giorno cerco di trovare un po’ di felicità in questa realtà, spesso crudele per molti bambini brasiliani. Lotto perché quanto accaduto a me non si ripeta».
Sensibilizzare è uno strumento fondamentale per promuovere il cambiamento. Anche nella vita di Cauã, 12 anni.
«L’abbiamo conosciuto durante la distribuzione di aiuti alimentari in piena pandemia — racconta Lia —. Vive nella città di Medina con la mamma e quattro fratelli, di cui uno affetto da disabilità. La famiglia cerca di sopravvivere con una pensione, ma tra affitto, bollette e medicine, i soldi non bastano mai».
Ogni mattina Cauã scende quindi in strada per vendere verdure, ghiaccioli, bibite e gelati; poi al pomeriggio studia.
«Siamo alla ricerca di una fonte di reddito alternativa per la sua famiglia — spiega Lia —, di fronte a storie come questa è facile sentirsi impotenti, ma noi non demordiamo. Monitoriamo da vicino le situazioni a rischio, partecipiamo alla stesura di norme di protezione e spieghiamo alle famiglie l’importanza di mettere al riparo i propri figli da situazioni malsane. Perché Cauã e i bambini come lui hanno il diritto di vivere la propria infanzia».