50 anni fa la prima casa famiglia. Ecco chi l'ha inventata.
Il 3 luglio 1973 a Rimini nasceva la prima casa famiglia. Don Oreste Benzi: «Non mi sono ispirato ad alcun modello. Abbiamo seguito il cammino che il Signore ci ha indicato»
Compie 50 anni un modello di accoglienza innovativo, che per la sua originalità fatica ad essere riconosciuto dalle normative in materia, nonostante abbia ampiamente dimostrato la propria efficacia.
Il 3 luglio 2023 le case famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII compiono 50 anni. Un evento la cui rilevanza travalica i confini associativi, dato che prima di quella data – giorno in cui venne avviata la prima struttura – le case famiglia non esistevano. Un modello di accoglienza per l’epoca decisamente rivoluzionario (gli handicappati erano per lo più confinati nei grandi istituti, i matti nei manicomi), ma che resta tutt’ora originale e innovativo, e per questo difficile da inquadrare nella normativa.
Nel frattempo il nome “casa famiglia” è entrato nel linguaggio comune, e se oggi lo digitiamo su Google scopriamo che questo appellativo viene usato per definire piccole realtà familiari con papà, mamma, figli naturali ed accolti, ma anche comunità educative con operatori specializzati che lavorano a turno, e persino strutture per anziani con 40 posti letto.
Ma allora cosa si intende per casa famiglia? Per scoprirlo, torniamo alle origini.
Chi ha inventato la casa famiglia
Nel fondare la prima casa famiglia «non mi sono ispirato a nessuno modello» racconta don Oreste Benzi al giornalista Valerio Lessi nel noto libro-intervista Con questa tonaca lisa. Aggiungendo: «Abbiamo seguito passo dopo passo il cammino che il Signore ci ha indicato».
E ripercorrendo i fatti che hanno portato alla nascita della prima casa famiglia si scopre che è andata proprio così.
Torniamo a Rimini, a cavallo tra gli anni 60 e 70, quando l’associazione pensata da don Oreste Benzi per favorire la “formazione religiosa degli adolescenti” muove i primi passi. Nel settembre del 1968 si era svolto a Canazei il primo “campo di condivisione” con giovani disabili. Un fatto nuovo, dirompente, a cui si fa risalire la nascita effettiva della Comunità Papa Giovanni XXIII. È in questo clima caratterizzato da un nuovo approccio con le persone emarginate che matura l’idea di una struttura in cui si possa sperimentare questa scelta in maniera totale.
Nell’estate del 1972 don Oreste convoca il gruppo di persone che all’epoca faceva dell’associazione e propone di avviare una sorta di “pronto soccorso” sociale, «una struttura – racconterà in seguito su “Sempre” – in cui si potesse accogliere ogni persona che avesse bussato alla porta senza chiederle né nome né cognome, solo invece guardando il suo bisogno e di aiutarla a risolverlo».
Un progetto impegnativo: «Nessuno si sentiva chiamato a realizzare questa cosa – annota ancora don Oreste –, tuttavia si disse: non impediamo di attuare la proposta se venisse fuori qualcuno disponibile».
Don Oreste cerca dei segni, e questi non tardano ad arrivare.
Un giorno incontra il cavalier Floridi, presidente della Fondazione “Madonna della Scala”, il quale gli offre una casa che l’ente da lui presieduto sta ristrutturando a Coriano. Il sacerdote accetta subito la proposta. La “casa”, dunque, si stava delineando. Bisognava concentrarsi ora sulla “famiglia”.
Viene segnalata a don Benzi una giovane, Ida Branducci, che stava cercando un modo di vivere il Vangelo in maniera radicale. Lui la incontra e le propone di legare la propria vita a quella degli ultimi, degli esclusi, dei rifiutati. Ida è interessata alla proposta e, assieme al sacerdote e a un’altra ragazza – racconta lo stesso don Benzi – «incominciarono a meditare sul Vangelo il mondo di comportarsi di Gesù coi poveri».
I lavori di ristrutturazione della struttura di Coriano procedono e il 27 maggio del 1973 c’è una prima inaugurazione, alla presenza del sindaco e di alcuni cittadini. Ma è il 3 luglio di quell’anno che la casa famiglia prende il via effettivo.
Il modello "casa famiglia" si consolida e si moltiplica
Nonostante la precarietà di questa prima esperienza, fin dal suo esordio appare evidente che la casa famiglia inventata da don Benzi non rappresenta un caso isolato ma un nuovo modello di intervento destinato ad una rapida moltiplicazione.
La seconda casa famiglia viene inaugurata dopo solo un mese e mezzo, il 15 agosto del 1973, presso la parrocchia “La Resurrezione”, in cui era parroco lo stesso don Benzi. L’11 novembre nasce già la terza casa famiglia, a Sant’Arcangelo.
Nel giro di pochi anni la proliferazione delle case famiglia varca i confini del territorio riminese, giungendo a Bologna e poi in altre regioni, partendo da Piemonte, Veneto, Lombardia per arrivare progressivamente su tutto il territorio nazionale.
È del maggio 1986 invece l’inaugurazione della “Holy family home for children” di Ndola, in Zambia, che apre la strada all’espansione delle case famiglia fuori dall’Italia.
Il nome composto scelto da don Benzi che abbina ad una struttura fisica – “casa” – un modello relazionale – “famiglia” – lascia intuire il significato: una struttura abitativa tra le altre, in cui si vive come in una famiglia. Non quindi come operatori e utenti ma genitori e figli, fratelli, sorelle. L’altro aspetto, accanto alla genitorialità a tempo pieno, è la complementarietà, per cui c’è potenzialmente posto per tutti: persone di età diverse, con disabilità fisiche o psichiche, con storie di disagio sociale, sfruttamento ed emarginazione, possono fare famiglia assieme, perché ognuno ha qualcosa di buono da dare e da ricevere.
Pranzo di famiglia nel Convento dei frati cappuccini di San Pietro Martire a Jesi (AN)
Foto di Samuel Polidori
Casa famiglia di Claudio e Cristina della Comunità Papa Giovanni XXIII, in provincia di Udine
La foto che ha fatto la prima pagina del Corriere della Sera: è stata diffusa dopo il terremoto del 2016 e le donazioni hanno permesso la costruzione di una nuova casa famiglia
Paolo Ramonda e la sua famiglia allargata
Foto di Caterina Balocco
Un terzo elemento caratterizzante è l'apertura al territorio. A differenza di quanto avveniva nelle cosiddette "istituzioni totali" quali gli istituti assistenziali o i manicomi, la casa famiglia si presenta come una normale abitazione tra le altre, e le persone accolte frequentano i nomali ambienti di vita come la scuola, il lavoro, i luoghi di aggregazione.
Secondo il Bilancio sociale dell’associazione relativo all’anno 2022, le case famiglia sono in totale247, di cui :
209 in Italia,
6 in Bolivia,
4 in Russia, Cile e Tanzania,
2 in Francia, Spagna, Brasile, Kenya e Zambia,
1 in Albania, Belgio, Germania, Grecia, Olanda, Portogallo, Venezuela, Bangladesh, Cina e Sri Lanka.
Casa famiglia, un modello da tutelare
Nel frattempo il termine è diventato di uso comune, ma questo fatto solleva un grave problema. «Case famiglia, comunità di tipo familiare, comunità infantili, sono diventate parole equivoche in questi ultimi tempi – avvertiva don Oreste Benzi in un Editoriale di Sempre già nel novembre 1993 – e chi ne fa le spese sono i bambini, gli adolescenti, specialmente handicappati, ritornati ad essere alle volte strumento per scopi estranei al loro bene. Per salvaguardare il bene dei piccoli è necessario distinguere le vere case famiglia da quelle che non lo sono. Il camuffamento dell'istituto sotto nuove terminologie è diventato abbastanza frequente.»
Sono passati 30 anni e il problema non è stato ancora risolto.
Esiste una legge che definisce e tutela le case famiglia?
Il problema del riconoscimento giuridico della case famiglia è piuttosto complesso. La legge 328 del 2000, infatti, ha assegnato alle Regioni il compito di definire i criteri di funzionamento delle strutture di accoglienza stabilendo solo requisiti minimi con il Decreto Ministeriale n. 308 del 2001.
Ciò significa che uno stesso modello di accoglienza come quello delle case famiglia gestite dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, trovi diverse definizioni e criteri di funzionamento nelle varie normative regionali, e in alcuni casi non trovi alcun riconoscimento.
«Le Regioni hanno legiferato dettando regole secondo le politiche amministrative che le caratterizzavano – spiega Mauro Carioni, che da decenni si occupa del riconoscimento giuridico delle case famiglia fondate da don Benzi –. Attualmente le case famiglia come quelle concepite dalla Comunità Papa Giovanni XXIII sono riconosciute da Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Marche, Lazio,Calabria e, finalmente, Toscana dopo oltre 10 anni di sperimentazione. Molise e Umbria ci hanno riconosciuto con limitazioni. In Lombardia la legge consente solo una sperimentazione comune per comune. E pensare che la prima casa famiglia in Italia è del 1973 e quindi parlare ancora di sperimentazione appare quantomeno ridicolo. Con l’amarezza di alcune regioni e province autonome che hanno detto di non essere interessate alla nostra tipologia di struttura».
Difficile fare chiarezza in un quadro così complesso. «Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in accordo con la Conferenza Stato-Regioni ha elaborato nel 2009 un Nomenclatore con l’intento di classificare le varie risposte di accoglienza, in modo da usare un linguaggio condiviso – continua Carioni –. Il problema è che queste linee guida non sono vincolanti e quindi ognuno può procedere in maniera autonoma. Anche le Linee Guida per l’accoglienza dei minori nelle varie strutture, frutto di un intenso lavoro partecipato fra Ministeri, Organismi Pubblici Territoriali e Comunità d’Accoglienza, resta non vincolante ma solo un’esortazione che non diventa cogente nelle normative regionali.»
Cinquant’anni di storia, ancora tanta strada da percorrere per dare a chi ne ha bisogno una vera famiglia.