«Lei diceva: io come medico non posso guarirti perché la medicina non è onnipotente. È una verità che mi tormenta ogni istante che ci penso, però ciò non significa che non posso prendermi cura di te. Prendermi cura di te significa seguirti, darti la mia mano e me stessa, sempre».
“Lei” è Cicely Saunders, l’infermiera-medico inglese che ha inventato le moderne cure palliative.
Chi parla è invece Emmanuel Exitu, autore del romanzo Di cosa è fatta la speranza, edito da Bompiani. Per «pagare le bollette» si occupa di storytelling d’aziende per WIP Italia. Ma da sempre si occupa di progetti di comunicazione nell’ambito del sociale. Il suo documentario Greater – Sconfiggere l’Aids, girato negli slum di Kampala in Uganda, è stato scelto da Spike Lee come miglior documentario del Babelgum Contest a Cannes 2008.
Della sua prima fatica letteraria, Daniele Mencarelli ha detto: «Mette assieme tutti gli ingredienti che portano al grande romanzo. Una protagonista straordinaria, una storia che non cede mai il passo, e, su tutto, una scrittura viva, capace di essere testimone della più misteriosa delle virtù.»
«L’incontro è avvenuto per caso. Avevo fatto un articolo per Il Foglio sugli hospice. In quell’occasione chiesi ad un mio amico palliativista, Marco Maltoni, se questa realtà degli hospice fosse un’evoluzione degli ospedali medievali, o se invece nella storia fosse successo qualcosa di nuovo. Era successo qualcosa di nuovo e si chiamava Cicely Saunders. Ho così scoperto che si trattava di qualcosa di assolutamente contemporaneo: il primo hospice è del 1967, e lei, nata nel 1918, è poi deceduta nel 2005.»
«La verità è che costa troppo fare un film su Cicely Saunders. Ero partito dall’idea del film, mi aveva talmente colpito questa donna, un autentico colpo di fulmine, che pensavo di poterla rappresentare lavorando a stretto contatto con una brava attrice. Sono arrivato a scrivere quello che si chiama trattamento cinematografico, che è il passaggio precedente della sceneggiatura. Il realismo poi mi ha fatto capire che nessuno avrebbe dato un milione di euro a chi, fino a quel momento, aveva fatto solo documentari. Ed ho pensato che forse era arrivato il momento di cimentarmi in qualcosa di nuovo, cioè scrivere letteratura. Per un anno e mezzo mi sono svegliato alle cinque e scrivevo fino alle nove. Ho tirato dritto per altri due anni per la stesura definitiva e il 6 giugno 2022 mi sono accorto che il libro era finito».
Cicely non ha una personalità carismatica. Anzi spesso mostra un brutto carattere. Però è una donna che osserva molto. Leggendo la sua storia, i vari passi che ha compiuto per fondare il suo primo hospice, viene in mente la frase del premio Nobel Alexis Carrell: «Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità; poca osservazione e molto ragionamento portano all’errore». È la sua capacità d’osservazione dei malati il segreto di Cicely?
«Sì, anche perché questa ossessione per l’osservazione non era solo di Carrell, ma anche di Florence Nightingale che è stata la fondatrice delle scienze infermieristiche. Questa donna, famosissima nel mondo anglosassone, alle infermiere che formava diceva: "Se voi avete un buon cuore ma non avete lo spirito di osservazione, non sarete mai delle buone infermiere". Quindi l’idea di osservare il decorso della malattia e di osservare la reazione del paziente era qualcosa che qualificava la scienza infermieristica. Perciò nel libro c’è questa parola, osservazione, che ricorre perché faceva parte della formazione delle infermiere. Nightingale è famosa perché nella guerra in Crimea per prima ha trattato in un certo modo i feriti che prima morivano come mosche. Lei organizzò le corsie in un certo modo: c’era più aria, c’era più igiene, c’era più possibilità di seguire il singolo paziente. Cicely ha assorbito molto questa formazione all’osservazione in tutto il suo percorso alla Nightingale Training School for Nurses.
Lei ha osservato molto in tutte la tappe del suo percorso. Lei guardava, cercava di capire cosa ci fosse dietro certe reazioni, certi comportamenti. Osservava tutto e questa capacità l’ha portata ad elaborare una procedura che è diventata scientificamente rilevabile».
«Era una fede poverissima, come diceva lei. Lei era anglicana della Chiesa Alta, molto convinta, con alcune amicizie che per tutta la vita ha seguito. Però non è che avesse chissà quale carisma religioso o umano. Era una con la testa più dura dell’acciaio, fastidiosissima quando si impuntava, insopportabile. Però per lei la fede era qualcosa di reale, sebbene la giudicasse molto povera. E questa fede l’ha resa capace di legger più in profondità la realtà, di osservare meglio. Ribadisco: non era una fede titanica eppure le ha dato una capacità di leggere la realtà che nessun altro ha avuto. È come se la fede l’avesse aiutata ad essere più scienziata. Lei si sentiva una donna di scienza. Infatti, ad un’età ormai avanzata per gli standard del tempo, decide che per poter fare ciò che ha in mente per i malati terminali deve laurearsi. A 33 anni si iscrive a medicina e si laurea a 39. Negli anni '50 lei, non sposata, senza figli, era considerata già con un piede sulla fossa. Eppure lei negli anni '60 fa il primo studio scientifico sul trattamento del dolore. Qualcosa di mai fatto prima, perché per la medicina la fase finale della malattia era assolutamente inutile. Al malato di fatto si diceva: siccome non posso guarirti, ti abbandono. A lei questo non andava bene, ha seguito l’intuizione per cui il dolore poteva essere trattato in modo da rendere umano il resto dei giorni».
«Prima succedeva così: tu non sei guaribile, e quindi ti abbandono. L’unico strumento che ti posso dare, come medicina ufficiale, è uno shot di eroina e morfina, quando i dolori diventano insopportabili. Però è una somministrazione che faccio ogni tot giorni perché la preoccupazione che questi avevano era che il paziente diventasse tossicodipendente. Chi stava per morire, viceversa, supplicava: drogatemi, tanto sto per morire. Per cui c’erano estenuanti trattative fra medico e paziente. E invece lei, seguendo percorsi appassionati e appassionanti, scopre che la morfina potrebbe anche essere somministrata per via orale con dosi molto piccole, a orari fissi. Studiando più di mille casi, quindi una ricerca tutt’altro che superficiale, scopre che i pazienti non diventano tossicodipendenti, quando deve alzare la dose è perché il tumore è avanzato, non perché il paziente è assuefatto. Tutto ciò introduce una novità decisiva: le persone non sono più in balia del dolore che schiaccia o della morfina che stordisce. Riprendi in mano te stesso, sei più libero e puoi riappropriarti delle relazioni che fanno parte della tua vita. E questo aiuta. In uno degli istituti in cui ha lavorato ha fatto una cosa pazzesca: fotografava i pazienti non appena arrivavano, e ci sono immagini devastanti, persone magrissime, distrutte, e dopo una settimana del suo trattamento quelle stesse persone erano sorridenti, con un sorriso da vincitori».
«Dare se stessi, conoscendo il mondo degli hospice, non è un’esperienza di qualche particolare ordine religioso. Ci sono tantissimi professionisti che fanno questo, indipendentemente che siano credenti o non credenti; lavorano negli hospice e prima di tutto offrono se stessi. Ed è qualcosa che fa capire che la cura è come se fosse un bisogno primario. Abbiamo bisogno di respirare, di mangiare e di dormire per vivere, e c’è anche il bisogno della cura. Cioè abbiamo bisogno di essere curati, ma anche di prendersi cura degli altri. È un tema intrigante, che voglio approfondire. Però mi pare che sia nel nostro Dna il prenderci cura di qualcun che sta male, qualcuno che inciampa per strada. C’è una sorta di istinto».
«Voleva dire che noi siamo vulnerabili, tutti, credenti e non credenti. Lei aveva molto potente il senso della propria umanità. Lei odiava chi aveva le risposte pronte, e questo me l’ha resa molto simpatica. Nonostante fosse devota, non gli piacevano le persone che cantassero sempre il gloria. Così come non tollerava i non credenti che a loro volta cantassero sempre il loro gloria. Insomma, a lei piaceva gente che si poneva domande, che si faceva mettere in discussione da quello che viveva. Avere le domande accese è la nostra vulnerabile umanità, come la chiamava lei. Oggi non ci si parla perché la gente non ha domande, ci si urla in faccia e non ci si ascolta. Invece l’essere sospesi alle domande ti rende le persone vicine, indipendentemente dal credo che hanno. La stessa fede si nutre di domande, altrimenti muore».
«Eh no, così spoileriamo il finale del romanzo. Possiamo dire che nell’ultimo capitolo arriva una paziente e vediamo come Cicely si prende cura dl lei, come di ogni altro paziente. Nella storia che racconto c’è un dono reciproco. Questa ragazza, all’inizio molto ostile, con i suoi doni si prende cura di Cicely. È ciò che spesso viene chiamata alleanza terapeutica. C’è un’alleanza fra me e chi mi cura che deve essere reciproca. Ho fatto una presentazione a Imola, che mi è piaciuta moltissimo, con un parroco. Questo sacerdote aveva avuto la madre che è morta in un hospice. Un percorso per lui difficile tanto che ha avuto bisogno di uno psicologo. Alla fine del rapporto lo psicologo gli ha detto che a quel punto aveva bisogno di parlare con lui della fede. È nato un incrocio di competenze molto interessante. Anche questa è cura palliativa. A me piacerebbe che il libro servire a promuovere una cultura della cura palliativa, dove ci si dà una mano, ci si dà più mani».
«Per capirlo bisogna leggere il libro… La speranza non è una spiegazione, è qualcosa che ti fa respirare. Quando incontriamo situazioni al limite, pensiamo che non ci sia speranza. Invece scopri che dentro quelle situazioni al limite ci sono persone che tengono accesso il fuoco, fanno bruciare qualcosa che tu pensavi non potesse bruciare. Quindi è interessante guardare nella direzione che ti indicano queste persone. Così è possibile tenere la testa alta anche nelle condizioni più avverse. Come testimoniano le foto che Cicely faceva ai suoi pazienti, all’ingresso e una settimana dopo».