Voluto dal Governo per intervenire sull'emergenza suicidi, il testo presenta dei limiti che sono stati evidenziati da esperti e associazioni, ma introduce un riconoscimento delle comunità rieducative alternative alla detenzione, che è stato accolto con soddisfazione dalla Comunità Papa Giovanni XXIII.
Il Governo pone la fiducia anche alla Camera e ieri, poco prima della mezzanotte, l'aula ha approvato le norme in via definitiva, con 186 voti favorevoli, 127 contrari e 2 astenuti. Diventa legge, dunque, un testo che ha suscitato critiche ma anche consensi nel mondo dell'associazionismo sociale impegnato a favore dei detenuti, in quanto apre la strada al riconoscimento delle comunità che propongono una pena alternativa lla detenzione. Ecco le novità e i limiti.
La situazione nelle carceri italiane
Dall'inizio del 2024, 56 persone si sono tolte la vita nelle carceri italiane. Sono quasi una ventina in più dell'anno scorso. E i numeri non contano i tentativi di suicidio fermati in tempo. L'affollamento e l'inadeguatezza dei programmi rieducativi dei nostri istituti penitenziari sono i principali imputati per queste morti, ormai da parecchi anni.
Daniela De Robert, giornalista Rai, è stata Garante nazionale dei diritti delle persone detenute: «
Quando un detenuto sceglie di togliersi la vita? Guardando i dati ci siamo resi conto che ci sono due punti di massimo: subito dopo l'arresto, oppure, in maniera più difficile da comprendere, a pochi giorni dal fine pena. Chi entra in carcere all'inizio non fa altro che pensare che la sua vita sia finita; e chi sta per uscire è convinto che nessuno potrà mai ridargli fiducia. Questi suicidi sono un grido di aiuto rivolto alla società esterna».
Come fare allora? «Sono poche le attività nelle carceri: tutti i nostri 61 mila detenuti hanno bisogno di poter partecipare ad attività educative, artistiche, sportive. Quasi 10.000 di loro hanno una condanna inferiore ai 3 anni e potrebbero chiedere l'arresto ai domiciliari o in strutture protette, ma molti non vi riescono ad accedere. Stiamo parlando di poveracci, assistiti male; alcuni non sanno nemmeno di aver diritto a pene alternative. C'è chi non può chiedere i domiciliari perché non ha una casa».
Il Decreto Carcere voluto dal ministro Nordio
Il 4 luglio 2024 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Carceri (d.l.92), firmato dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio. Emanato sulla base di “straordinaria necessità ed urgenza”, ha voluto intervenire cogliendo l'allarme suicidi, ed introducendo misure come l'assunzione di nuove guardie carcerarie, un piccolo aumento delle possibilità di telefonare, e per la prima volta finanziando le alternative alla detenzione.
Fredda è stata l'accoglienza della società civile. «Sarebbero necessari provvedimenti che incidano nell’immediatezza sui numeri generali della detenzione e sulla qualità della vita nelle carceri italiane», scrive in una nota l'associazione Antigone, che vanta una lunga esperienza (sin dagli anni '80) al fianco dei detenuti.
Liana Milella giornalista di Repubblica, intervistata da Radio2, l'ha definito un decreto “smilzo”: «Non c'è un motivo reale di urgenza in nessuna delle novità, se non nell'introduzione di una norma sul peculato per distrazione. Questa serviva al Governo prima del varo del disegno di legge sull'abuso d'ufficio. Per il resto il sovraffollamento non è nemmeno citato; il nuovo personale previsto arriverà fra tre anni. Il decreto introduce l'apertura alle comunità, ma questa avrebbe potuto essere gestita in maniera più adeguata e veloce con un decreto amministrativo, come si era fatto durante l'epidemia del Covid-19».
Un albo per le comunità educanti
Una delle principali novità previste dal decreto è proprio questa: l'istituzione di un nuovo albo, che raccoglie le strutture residenziali per l'accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti. Vengono anche stanziati dei fondi per facilitarne l’accesso in particolare a minori e tossicodipendenti.
Le comunità non sono però una soluzione a tutti i problemi. Sottolinea ancora De Robert: «La vita in comunità richiede una libera scelta: senza la partecipazione attiva della persona, un progetto di recupero non può funzionare».
Giorgio Pieri della Comunità Papa Giovanni XXIII, fra gli ideatori di questo tipo di realtà, spiega: «
La possibilità va data a tutti, anche se nella nostra esperienza incontriamo molti detenuti che non la scelgono: si tratta di percorsi impegnativi. Chi entra in queste realtà deve dire: “Voglio essere aiutato a rimuovere in me gli atteggiamenti delinquenziali”».
L'associazione dal 2004 è pioniera di questo tipo di accoglienza: oggi ospita circa 300 persone in 10 Comunità educanti con i carcerati (Cec), strutture dove i detenuti vivono percorsi di giustizia ripartiva ed esperienze di volontariato. Qui la recidiva (la tendenza a commettere di nuovo dei reati) si abbassa al 15%, dal 75% delle carceri tradizionali.
Secondo Pieri un detenuto in carcere oggi costa allo Stato circa 150 euro al giorno; in comunità costerebbe meno della metà.
Ma come funziona il programma di recupero sociale nelle Cec? «Proponiamo un percorso rieducativo. I detenuti da noi accettano di guardare sia le ferite che hanno provocato con i delitti commessi, sia le ferite proprie che li hanno portati a delinquere. Il vero percorso educativo è quello che fa andare a ritroso nel proprio passato, per capire le ragioni che hanno portato alla devianza. Le persone riscoprono così violenze subite, povertà, problemi di relazione con i genitori. Tutto questo le aiuta a guardare ad una vita nuova».
Nella Comunità di Don Benzi c'è soddisfazione per le nuove possibilità aperte dal decreto, ora convertito in legge.
Laila Simoncelli, avvocato dell’associazione: «Fino ad oggi le uniche risposte possibili al problema del sovraffollamento sono state le costruzioni di nuove carceri, che comunque richiedono almeno 10 anni di lavori, oppure il ricorso ad amnistie ed indulto. Per la prima volta, un governo ha previsto l'istituzione di un albo: si tratta di un grande passo avanti che ci consentirà di avviare percorsi nuovi e sperimentazioni.
I numeri previsti dal decreto sono piccoli (300 persone inserite in comunità all'anno), ma potremo finalmente dimostrare che il sistema funziona. E se avremo un terzo settore forte potremo arrivare a far uscire di galera tutti gli aventi diritto, ritornando ad un carcere più umano».