Ci sono conseguenze fisiche, psicologiche e sociali causate dalla violenza subita. Oltre ad essere un grave evento traumatico può annientare il senso di integrità personale, provocando danni a lungo periodo, come nel caso di Helena che soffre di schizofrenia a causa dei traumi subiti.
La storia di Helena è stata raccontata durante il Seminario "Salute mentale, violenza e migrazioni" all'interno del Progetto Miriam lo scorso 15 ottobre.
Sappiamo tutti come la violenza sia un’esperienza traumatica, legata spesso ad un vissuto d’impotenza nei confronti dell’aggressore. Il percorso di uscita dalla violenza consiste in un cammino lungo e difficile che le donne spesso intraprendono solo dopo aver raggiunto un alto grado di consapevolezza.
Diversi studi internazionali hanno dimostrato
conseguenze fisiche, psicologiche e sociali della violenza che, oltre ad essere un grave evento traumatico ed un’esperienza intollerabile che può annientare il senso di integrità personale, può provocare anche danni di lungo periodo.
La vittima di violenza può sviluppare disturbi psichici e fisici - oltre che psicosomatici - sia a breve che a lungo termine, collocabili all’interno di un
range di gravità molto ampio, in relazione alle caratteristiche dell’abuso, all’identità dell’aggressore, alla vulnerabilità e alla situazione psicologica della vittima, nonché alla rete di supporto familiare, amicale e sociale intorno alla donna.
Le conseguenze, in particolare se la violenza non riguarda un singolo atto ma più eventi collegati tra di loro e prolungati nel tempo, possono cronicizzarsi e assumere una gravità maggiore, fino a
causare condizioni di disabilità permanenti.
Immaginiamo la situazione in cui la donna a subire violenze è anche migrante e portatrice di un disturbo mentale pregresso alla violenza: la situazione si complica a livelli esponenziali.
Ecco la storia di Helena (nome di fantasia),
una ragazza rumena con un ritardo mentale, costretta dal fratello maggiore a sposarsi quando aveva 17 anni, poi portata in Italia e obbligata a chiedere l’elemosina. Tutte le violenze fisiche e psicologiche che ha subito hanno provocato in lei un malessere psichico invalidante.
La storia di Helena
«Sono nata in una piccola città della Romania;
i miei genitori sono morti quando ero piccola e io sono cresciuta con i miei fratelli. Un giorno mio fratello maggiore mi ha detto che dovevo lavarmi, truccarmi e farmi bella perché mi avrebbe fatto conoscere un uomo rumeno, uno zingaro. Io avevo solo 17 anni e non volevo.
Mi sono ribellata, ma lui mi ha costretta picchiandomi e mi ha portata con la forza a casa di quest’uomo, dove
sono rimasta segregata per 3 mesi subendo violenze fisiche e sessuali. Io non avevo mai avuto rapporti e provavo a ribellarmi a questi stupri ma era tutto inutile. Lui beveva e faceva uso di sostanze; non mi ha mai costretta a farne uso perché diceva di non voler sprecare soldi per me.
In quel periodo sono rimasta incinta e dopo diversi tentativi di fuga, sono riuscita a scappare ma è durata poco: mio fratello mi ha ritrovata. Abbiamo lottato ma poi
lui mi ha accoltellata e mi ha tirato del caffè bollente in faccia; ho perso i sensi e al mio risveglio mi sono ritrovata nel suo appartamento insieme allo zingaro.
Io non ero mai stata registrata all'anagrafe probabilmente perché ho un ritardo mentale.
Mi hanno costretta a sposare lo zingaro così avrei avuto i documenti per potermi far arrivare in Italia più facilmente.
Quando sono arrivata in Italia, mi hanno
costretta a chiedere l’elemosina in stazione; non mi davano da mangiare e non potevo neanche bere. Loro mi controllavano a vista e non potevo spendere niente di quello che guadagnavo perché di sera passavano a controllarmi: mi controllavano anche nei calzini e nelle mutande. Io non mi sono mai tenuta niente, avevo troppa paura.
Ormai la mia gravidanza era ad uno stadio avanzato e le condizioni in cui vivevo mi hanno portata a sentirmi male: avevo dei crampi fortissimi alla pancia. Un’assistente sociale che passava da lì mi ha vista e ha chiamato subito i soccorsi. Sono stata ricoverata e dopo poco ho partorito mia figlia; all’epoca io avevo 18 anni. Dato che sono stata registrata come paziente senza fissa dimora e con identità sconosciuta,
mia figlia non è stata iscritta all'anagrafe, né riconosciuta. Sono rimasta con lei per 3 mesi in una comunità per mamme con bambini, ma poi me l'hanno tolta: è stata data in adozione e io ne ho sofferto moltissimo ma adesso mi rendo conto che è stato meglio così perché ora lei sicuramente avrà una vita migliore di quella che avrei potuto darle io».
Come vive oggi Helena
Helena ha cambiato altre 3 Comunità prima di arrivare alla sua attuale e stabile sistemazione all'interno della Comunità Papa Giovanni XXIII.
Quando è arrivata non parlava, non si lavava, si toccava le parti intime in pubblico; era evidente che,
oltre al ritardo mentale, ci fosse un malessere psichico pervasivo e invalidante. Era urgente una presa in carico da parte dei servizi, ma Helena era priva di ogni tipo di documento (non esiste neanche il suo certificato di nascita) quindi si è potuto ottenere solo il codice fiscale italiano (non la tessera sanitaria) e il codice ENI per l’assistenza ospedaliera e di urgenza destinata ai cittadini europei presenti irregolarmente sul nostro territorio (codice da rinnovare ogni 6 mesi). In questo modo ha potuto almeno essere presa in carico dal Centro Salute Mentale: dopo una serie di incontri con lo psichiatra, le è stata diagnosticata una
forma di schizofrenia con allucinazioni visive e uditive probabilmente causate dal trauma; quindi le sono state prescritte diverse terapie e ad oggi prende la
clozapina (farmaco piuttosto pesante per cui è necessario un controllo ematico mensile), la
quetiapina e il
talofen all’occorrenza.
La presa in carico da parte della Salute Mentale è stata di fondamentale importanza per Helena poiché le ha dato la possibilità di vivere più serenamente il quotidiano, ma questo non può bastare.
Nel suo particolare caso, in cui lei non potrà mai essere autonoma, il fatto di vivere in casa famiglia con altre ragazze ospiti, anch’esse con diverse difficoltà psichiche e fisiche
le ha dato la possibilità di vivere relazioni tra pari e creare legami affettivi di tipo familiare, che non aveva mai sperimentato in precedenza. Così pure la sta aiutando frequentare il Centro di Aggregazione Giovanile e la Cooperativa Sociale, con tutte le diverse attività proposte, specialmente quelle manuali che la appassionano particolarmente (le piace tantissimo creare oggetti di bigiotteria). Ora lei si sente accolta, ben voluta e utile e, a suo dire, sono cose essenziali per lei e arricchiscono il suo vivere.
Il percorso di uscita dalla violenza e quindi la reintegrazione sociale di donne migranti vittime di violenza con patologia psichiatrica deve contemplare anche la gestione della disabilità (o comunque del disturbo) e quindi bisogna essere in grado di costruire insieme alla donna un percorso di autonomia che sia adeguato alle sue particolari condizioni.
Come contrastare episodi di violenza di questo tipo?
La storia di Helena è un esempio di come, in una visione più ampia, sia
necessario un lavoro di rete e una comunicazione costante tra i diversi attori sociali coinvolti (Forze dell’Ordine, servizi sociosanitari, movimenti contro la violenza sulle donne e associazioni in difesa dei diritti delle persone con disabilità, le organizzazioni e i volontari che offrono assistenza).
Le donne come Helena hanno bisogno di sapere che ci sono sul territorio dei
servizi preposti ad aiutarle nel caso in cui subiscano violenza: spesso le donne straniere fanno fatica ad accedere ad un CAV proprio perché non sanno neanche cosa sia. Hanno bisogno di essere ascoltate in modo non giudicante, di potersi fidare e affidare e hanno bisogno di poter ricevere risposte concrete e rapide ai loro bisogni.
È fondamentale anche
creare una rete di sostegno per la donna, magari formando anche dei gruppi di mutuo aiuto, tenendo presente che spesso queste donne sono molto sole e isolate: la famiglia d’origine è lontana, non hanno amici o persone fidate, oppure non hanno avuto modo di imparare la lingua del Paese che le ospita
Molto interessante sarebbe fare una riflessione sul fatto che
un metodo efficace per contrastare questo tipo di violenza sarebbe quello di intervenire sul modello culturale che permea ancora la nostra società:
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insegnare alle persone come approcciare la condizione di disabilità;
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educare gli uomini ad uscire da quel ruolo di prevaricazione spesso messo in atto sulla donna;
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operare sulle potenziali vittime, attivando i meccanismi di sviluppo dell’autostima e della fiducia in se stesse, necessari per riconoscere la violenza e poterla poi combattere;
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andare a parlare coi più giovani, tra i banchi di scuola, perché in modo un po’ cinico, ma realista purtroppo, sono loro i futuri autori o vittime di violenza.