Don Claudio è fondatore e presidente dell'Associazione Kayròs, che dal 2000 gestisce comunità di accoglienza per minori e servizi educativi per adolescenti: «La cattiveria è una maschera, con cui questi ragazzi cercano di nascondere le proprie fragilità, le proprie debolezze, le proprie storie difficili».
Nella biografia personale di don Claudio Burgio, 54 anni, da 17 cappellano al carcere minorile Beccaria di Milano, c’è un curioso paradosso. Lui è cresciuto cantando Palestrina (un compositore rinascimentale di musica sacra polifonica), poi è diventato direttore della cappella musicale del duomo di Milano, però in carcere e nella comunità Kayros, che ha fondato e dirige, incontra ragazzi il cui mondo musicale si chiama rap e soprattutto trap.
«È la legge del contrappasso - sorride - la vita mi ha riservato questo. La musica è la mia grande passione, è uno strumento educativo formidabile che anche quando non è esattamente la musica divina che mi hanno insegnato da ragazzo».
Ma i suoi giovani le hanno mai chiesto come fa a piacerle la musica sacra così diversa dalla trap?
«I ragazzi sono molto rispettosi delle differenze, alcuni di loro anche ascoltato brani che ho composto per la liturgia, qualcuno è venuto anche alle messe papali qui a Milano; con Benedetto XVI e Francesco, quando dirigevo i 1500 cantori. Quindi c’è una contaminazione, però è chiaro che anche io mi sono dovuto immergere ed ascoltare la loro musica trap; è uno scambio fra generazioni, è un modo sempre nuovo per incontrarsi con la musica».
I giovani che lei incontra hanno avuti a che fare con la giustizia per violenze e delinquenze di ogni genere. Eppure all’ingresso della sua comunità capeggia una scritta: «Non esistono ragazzi cattivi». Che significa?
«L’idea che esprime questo slogan è che la cattiveria non è innata nelle persone, tantomeno nei ragazzi che incontriamo. La cattiveria è una maschera, con cui questi ragazzi cercano di nascondere le proprie fragilità, le proprie debolezze, le proprie storie difficili. Però quando ritrovano l’impronta originaria che c’è in loro, la vita cambia, diventa molto più attrattiva».
Ma dire che i ragazzi non sono cattivi, non è buonismo, il solito modo di negare le responsabilità personali e di attribuire ogni colpa all’ambiente, alla società?
«È un’obiezione che spesso sento dire. In genere è sulla bocca di chi ha un senso di giustizialismo molto forte. Per me la giustizia non ha a che fare con la vendetta, con la retribuzione. Noi crediamo molto nella giustizia riparativa che vuol dire, contro ogni buonismo, che i fatti vanno riconosciuti, che i reati vanno condannati. Però ciò non significa che la persona non possa cambiare, che non possa riconciliarsi, anche con le vittime, che non possa fare un cammino di cambiamento. Noi lavoriamo per questo, sosteniamo questo tipo di speranza. Il buonismo lo consideriamo una forma di violenza, non è certo un modo per educare i ragazzi. Non sarebbe serio omettere le loro responsabilità. Crediamo però che ogni ragazzo non coincide con il proprio male, con le proprie azioni malvage. C’è sempre la possibilità di una redenzione, di un cammino».
C’è sempre la possibilità di ricominciare, lei dice. Alcuni seguono un percorso di recupero ma poi ricascano nella violenza, nella delinquenza. E con questi cosa fa?
«C’è chi cambia al primo colpo, ci sono molti ragazzi che attraverso vari itinerari di giustizia riparativa, di messa alla prova, cambiano subito, capiscono il disvalore di certe azioni. Ci sono altri che fanno fatica a cambiare subito, hanno bisogno di più momenti. Quindi una ricaduta non significa che un ragazzo non possa crescere, non possa riabilitarsi. Vuol dire he ha bisogno di qualche input in più».
Nella sua comunità i cancelli sono sempre aperti. L’ educazione è dunque un rischio che rispetta la libertà?
«Sì, abbiamo l’idea che la legge, le regole non siano sufficienti a cambiare un ragazzo, a renderlo più consapevole. Servono le regole, ma ci vuole anche una presa in carico della libertà di questi ragazzi. Finché non arrivano a interiorizzare la regola, finché non arrivano a prendere coscienza della loro vita, non riusciranno a cambiare. La libertà è quello spazio, quel margine che permette a questi ragazzi di interiorizzare, di entrare dentro una scelta, una decisione. Tenere i cancelli aperti giorno e notte è una sfida, un modo per dire a questi ragazzi: questo non è un carcere, qui c’è di mezzo la tua coscienza, la tua libertà, scegli e decidi se rimanerci o no».
Il rapper Baby gang ha detto di lei: lui guarda la persona non le carte. Ha capito bene il suo metodo?
«Certo, lui non sa cosa siano le carte perché non ha mai avuto un’educazione alla legalità. Per lui lo Stato con le sue leggi è qualcosa di sconosciuto. Per affrontare questi ragazzi bisogna saper anche interagire, guardare negli occhi, sospendere il giudizio, provare ad aiutarli nella fiducia. Molti nostri ragazzi non conoscono e non riconoscono l’autorità perché ritengono il mondo adulto, il mondo delle istituzioni, come irrilevante. Quindi bisogna aiutarli a comprendere che si parte da un rapporto umano, da una fiducia, da un ascolto, guardando la persona per quello che è, non solo per quello che fa»
Di cosa hanno bisogno questi ragazzi, al fondo?
«Hanno bisogno di adulti credibili, hanno bisogno di avere un rapporto serio con persone che sappiano in qualche modo incuriosire la loro coscienza e sappiano anche farla nascere, in alcuni casi. Hanno bisogno di adulti vicini credibili, che tendenzialmente siano coerenti, e non adulti che diventano come amici: questo è il vero dramma, una età adulta che si è liquefatta, non ha più autorevolezza, non sa più essere diversa dalla generazione dei figli».
Hanno bisogno di un padre?
«Spesso sì, magari c’è il padre ma è assente, insignificante. I ragazzi cercano una paternità di altro tipo, che abbia a che fare con la testimonianza di una vita credibile. Qualche anno fa i ragazzi mi hanno regalato un quadretto per la festa del papà. Accanto alle foto hanno inserito questa frase: "Non ci hai mai detto come vivere, ti sei lasciato guardare e noi abbiamo capito". Quindi non sono sufficienti le parole, tanti paternalismi. Tanto maternage non serve, hanno bisogno di vedere persone convinte dalla vita».
Ha dichiarato che una delle sue canzoni preferite è Casa di Neima Ezza, dove si parla appunto del desiderio di tornare a casa, della ricerca di un rimedio.
«È un ragazzo che conosco bene, l’ho visto anche di recente. Mi diceva che sarà presente al concerto del primo maggio a Roma. È molto emozionato ma anche molto insicuro. Andrà appunto a cantare Casa, la sua canzone più famosa ma si chiedeva: la capiranno? Anche lui è partito da storie di difficoltà nel quartiere di San Siro, ha compiuto anche qualche reato. Ma poi è cambiato perché il desiderio di tornare a casa, il pensiero della mamma, della famiglia lo hanno aiutato a cambiare strada».
Come devono porsi gli adulti davanti ai ragazzi “cattivi”? Può essere un alunno a scuola, un vicino di casa, un amico del figlio o magari un figlio…
«Bisogna incontrare questi ragazzi senza averne paura, senza avere pregiudizi. Bisogna sapere che arrivano da storie drammatiche, in cui il bullismo è la reazione a qualcosa che hanno subìto in precedenza. Sono ragazzi molto fragili, bisogna saperli prendere. Loro tendono a nascondere la debolezza, ma sono ragazzi che spesso mi raccontano che hanno subìto violenze; quindi, sono stati vittime di bullismo nell’infanzia. Occorre affiancare, accompagnare, camminare con questi ragazzi fino a quella confidenza, a quella fiducia che permette loro di verbalizzare le proprie emozioni, le proprie rabbie».
Lei dice che questi ragazzi difficili mettono in crisi la nostra cultura fondata sulla prestazione. Che significa?
«Significa che i ragazzi sono valutati positivamente nella scuola o nel lavoro solo se offrono prestazioni eccellenti. Questa cultura della prestazione, che poi è una sottocultura della dittatura del profitto, valuta questi ragazzi come "bravi" se producono risultati, o come "cattivi" se non sono all’altezza delle prestazioni richieste. Tutto questo purtroppo porta a una grande fragilità interiore. Inoltre, un ragazzo che magari riesce, che ha risultati, non è detto che sia felice. Quindi la felicità non è legata necessariamente a questa cultura della prestazione, anzi di questa cultura i ragazzi cominciano ad averne abbastanza, soprattutto nel mondo della scuola che è il tempio del voto. I ragazzi si disperdono e non riescono ad essere all’altezza di questo tipo di apprendimento. Questo accade anche nei corsi di formazione, perché prevalgono i programmi, gli schemi didattici. Bisognerebbe partire dalle competenze e non dai programmi didattici uguali per tutti. Bisogna personalizzare i percorsi di apprendimento della cultura perché ogni ragazzo sia incluso».