Ave Maria è il titolo del secondo libro che ha scritto con Papa Francesco. Lha incontrato in un momento difficile, ora lo intervista in TV. Ama stare tra i giovani, con cui si trova in sintonia, e con i carcerati, che sono divenuti i suoi veri parrocchiani. E dice: «Nell'inferno della galera, ho incontrato me stesso».
Parla, gesticola, non sta fermo un attimo mentre racconta una storia vera, la sua. I ragazzi sembrano catturati, si sentono letti nel cuore. Ricorda a loro che è solamente un sacerdote che si alza ogni mattina pensando di fare tante cose belle, ma che poi quando va a letto scopre anche di aver sbagliato, di essere un peccatore.
Arriva una domanda: «Perché ti piace stare con i ragazzi?» «Perché non so fare altro» risponde. Il mondo degli adulti è complesso, devi misurare le parole per non essere franteso. Lui invece è un tipo diretto, a tratti irriverente.
La passione di don Marco Pozza per i giovani non è storia di oggi. La prima volta in cui le cronache si sono occupate di lui era da poco diventato prete e lo avevano soprannominato don Spritz, anche se lui precisa che è astemio e questo appellativo non gli è mai piaciuto.
Prima di intervistarlo ho voluto vederlo in azione in uno dei tanti incontri che tiene in giro per l’Italia.
Oggi il suo è un volto conosciuto. Nel 2017 l’abbiamo visto, assieme ad altri sacerdoti, condurre su Rai 1
Le ragioni della speranza all’interno del programma
A sua immagine. Su
TV 2000 ha intervistato addirittura Papa Francesco, con il quale ha poi scritto due libri. Niente male per uno che confessa ai ragazzi di essere stato in passato profondamente timido, tanto da non riuscire a proferire parola neppure davanti a cinque persone.
Lui non nasconde i dubbi e le fragilità e forse è per questo che piace ai giovani. «Ogni giorno mi alleno e mi chiedo: perché sono felice? Ma a mezzanotte scadono i motivi di oggi, domani ne devo trovare altri».
E ricorda l’insegnamento di suo padre: «Non potrai mai essere felice se non fai fatica. Quando ti trovi davanti ad un bivio, scegli la via più difficile».
Nato a Calvene, paesino ai piedi dell’Altopiano di Asiago, ama correre – ha partecipato a 5 maratone – e scrivere, tanto vincere nel 2016
il Premio internazionale di Giornalismo Biagio Agnes.
A 24 anni è già sacerdote e dopo pochi anni viene mandato a Roma dove consegue il dottorato in Teologia Fondamentale alla
Pontificia Università Gregoriana di Roma, discutendo una tesi su
Cittadella, opera postuma del suo autore preferito
Antoine de Saint-Exupéry.
Ascoltarlo è come bere un estratto di speranza, che sa ricavare anche dai luoghi e dalle situazioni dove ogni prospettiva sembra smarrita. Come quando ha celebrato il suo primo funerale, di un bambino di 4 anni. O tra i detenuti nel carcere di massima sicurezza “Due Palazzi” di Padova, di cui è cappellano dal 2011.
Racconta che una delle cose più strane che gli sono capitate è l’incontro con Papa Francesco. «Gli ho scritto una lettera e dopo due giorni mi ha chiamato… Sono in difficoltà, gli ho detto, non so a chi chiedere aiuto. E lui: ti aspetto domani. Mi ha accolto con un abbraccio, mi sono sentito libero di raccontargli tutto di di me. Questa è la Chiesa che mi piace».
Lui però non disdegna la provocazione. Nel suo blog “Sulla strada di Emmaus” si legge che esordisce come autore di romanzi con «una scrittura imprevedibile e indisponente». Tra i suoi libri più recenti troviamo titoli come
L'imbarazzo di Dio (2015),
L'agguato di Dio (2016) e
L'iradiddìo (2017).
Don Marco, visto che dai del “tu” al Papa, posso dare del “tu” anche a te?
«Non dipende da me. Decida lei: vuol fare un'intervista o una conversazione? Nel primo caso usi il
lei, per favore. Nel secondo si può usare solamente il
tu, che è il pronome della vicinanza.».
Allora vada per l’intervista. Come è diventato amico del Papa? Aveva conoscenze che contavano?
«Non sono amico del Papa. Sono un sacerdote al quale Dio ha fatto dono di poter condividere un pezzo di strada con il suo rappresentante in terra. Lui è il Papa, io sono un prete. Ci vogliamo bene, questo sì. Ho solo un'amicizia importante, quella che mi ha condotto ad incontrarlo: il mio Gesù. Che, in questi anni, è nascosto nei miei poveri che ho accanto.»
Con lui ha scritto prima un libro dedicato al “Padre Nostro” e ora all’Ave Maria. Due preghiere molto popolari. C’era bisogno di spiegarle?
«Noi non le abbiamo spiegate: non c'era bisogno. La necessità nostra era un'altra: darci la possibilità di ritrovare la freschezza che l'abitudine aveva roso un po'. Le preghiere non si spiegano, si recitano: avesse voluto spiegarle, l'avrebbe fatto Gesù stesso molto meglio di noi uomini.»
Cosa la colpisce di Papa Francesco?
«Nessun particolare in particolare. Una persona è bella quando la sua totalità fa scomparire la possibilità di fermarsi su un singolo dettaglio. Dio è la bellezza: chi gli va dietro riceve in dote un frammento di quella bellezza, che basta ad illuminare tutto il resto.»
Veniamo a lei. Perché tra tante “professioni” hai scelto proprio quella del prete?
«La domanda è posta male: non è una professione la mia, è una missione. E le missioni non si scelgono, ti vengono gettate addosso. Non ho scelto io Dio, è stato lui a scegliere me. Cerco di stargli dietro meglio che posso.»
Molto prima di conoscere Francesco era finito sui giornali con l’appellativo di “Don Spritz”. Cos’era successo?
«Dovreste chiederlo a chi ha coniato quel soprannome. Io, semplicemente, siccome non trovavo volti giovani dentro la chiesa (quella di mattoni), sono andato a cercarli dentro le piazze, che erano piene. Pian piano ci siamo contaminati i mondi e siamo andati d'accordo: io continuavo ad andare da loro, loro hanno iniziato a venire da me. Con la speranza che non si siano fermati a me ma, almeno qualcuno, sia arrivato a Cristo. Nel primo caso mi sparerei, nel secondo avrei fatto goal.»
È vero che all’epoca è stato menato da un barista?
«L'unica letteratura che mi affascina è quella italiana, tutt'al più quella latina e greca. Le altre letterature, anche quella su di me, è acqua sul bagnato.»
Trascinava i giovani, riempiva la Chiesa, era nel pieno del suo apostolato, ma qualcosa è cambiato. Nel 2007 viene mandato a Roma a studiare. Un riconoscimento o un allontanamento?
«Non mi sono mai posto questo dilemma, ho altri pensieri per la testa: “Come faccio ad essere felice davvero in compagnia di Dio?” Per rispondere, applico sempre un mio segreto: trasformare le difficoltà in occasioni. Per vincere ho imparato a farmi amici anche i nemici, le occasioni nemiche.»
Dai giovani al mondo dentro il carcere di massima sicurezza a Padova. Com’è avvenuto questo incontro?
«Come accadono tutti gli incontri: apparentemente per caso. Poi, ragionandoci, ho scoperto che è stata l'evoluzione naturale della mia storia: dal carcere alla strada il passo è brevissimo. È la “parrocchia” che fa per me: dentro le macerie, ricostruire.»
È il carcere oggi la sua parrocchia?
«Certo. Ufficialmente non è una parrocchia, ma io la considero tale anche senza un'ufficialità: il popolo di Dio ha troppo fiuto per sbagliarsi. Col tempo arriverà anche l'ufficialità. Se non arriverà, chisse-ne-frega: l'importante è avere Dio nel cuore.»
Questi uomini che non sono certo chierichetti, come vedono la figura del sacerdote?
«Vivo di rendita in carcere: prima di me è già passato don Oreste Benzi a trafiggere le anime delle persone detenute. Dopo di lui il sacerdote è quasi-sacro. Lo criticano, lo apprezzano, lo scansano e lo cercano. Ne misurano l'altezza della sua fede: è il destino di tutte le anime che vivono quaggiù, sacerdoti compresi.»
Un incontro che le è rimasto nel cuore
«Quello che deve ancora accadere. Ieri è stata una bellissima giornata, ma non posso dire che sia stata la più bella: domani potrebbe essere ancor più affascinante. Eppoi, nell'inferno della galera, ho incontrato me stesso: è pazzesco quant'è bella la mia storia-ferita.»
In chiesa oggi troviamo sempre meno giovani. Il Vangelo non interessa più?
«O non affascina più il modo di comunicarlo? “Guardi solo la forma!”, dirà qualcuno. Certo, la forma dice già qualcosa circa il contenuto. Dalla copertina di un libro dipende il 75 per cento dell'acquisto di un libro.»
Lei come lo comunica, il Vangelo?
«Come sono capace, al naturale. Dio – e coloro che lui ha mandato sul mio cammino – non mi hanno mai chiesto di annullare il mio carattere. Mi stanno insegnando, con una delicatezza sovrumana, a farlo brillare sempre meglio.»
Come lo vive?
«La domanda è da rivolgere a chi mi incontra.»
Qual è il suo rapporto con il Padre?
«Conflittuale. Come conflittuali sono tutte le storie d'amore. Siamo sempre sul punto di lasciarci, poi ogni mattina troviamo un appiglio valido per tentare di portare a casa un'altra giornata di fedeltà assieme. Ci amiamo per come siamo: lui testardissimo ad amarmi, io testardissimo a provar fare di tutto per diventargli insopportabile.»
Uomo di spettacolo, di cultura, prete ma anche sportivo. Va ancora a correre?
«Nessuna di queste definizioni mi si addice. Io sono un sacerdote: punto. Per tenere in piedi, ben acceso, il mio sacerdozio, vivo tutte le passioni che fanno battere il mio cuore, tenendolo ordinato. Ho fatto voto di castità non di castrazione, di obbedienza non di servilismo, di povertà non di miseria. Le sfumature sono importantissime, direi che sono discriminanti.»
«Ogni giorno mi sveglio e mi chiedo perché oggi sono felice». È questo il segreto del tuo sorriso?
«Se è un segreto, perché dovrei rivelarglielo? Non sarebbe più un segreto.»
Nell’incontro pubblico a cui ho assistito diceva ai ragazzi che la sua preghiera preferita è l’Angelo di Dio e che ha la certezza di avere un angelo custode. Chi è?
«Si chiama Stefano. Il suo funerale è stato il primo funerale della mia storia di sacerdote: lui aveva quattro anni, io ventiquattro. Quel giorno l'ho stramaledetto: ho dovuto portare al camposanto un bambino, coi genitori dietro la bara. Poi, anni dopo, quel giorno l'ho benedetto: mi sono accorto di essere andato a prendermi l'angelo custode che era stato pensato per me. Ho pianto fino a disperarmi quel giorno: oggi noi due viaggiamo in coppia.»
Tutti, secondo lei, abbiamo un angelo custode?
«Per ognuno c'è un angelo custode a disposizione. Per dire d'averlo, occorre accettarlo. Qui, però, c'è di mezzo la libertà. Anche la libertà di rifiutare l'amore e la custodia.»