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20 Giugno 2022
Ultima modifica: 23 Giugno 2022 ore 14:21

Don Olivo Dragoni: «Contagiare di speranza»

È mancato ieri il sacerdote di Lodi, amico di don Benzi e della Comunità Papa Giovanni XXIII. Pubblichiamo un'intervista del 2010 in cui ci aveva raccontato la sua vita e un curioso aneddoto.
Don Olivo Dragoni: «Contagiare di speranza»
Foto di Alessio Zamboni
Per molti anni ha vissuto la missione in America Latina, visitando, su incarico della CEI, religiosi e laici partiti per annunciare il Vangelo. Lì ha scoperto una Chiesa povera ma viva, capace di dare speranza anche a chi ha una fede assopita.
Prima ancora di incontrarlo, la sua forza spirituale mi era già stata trasmessa da quanti lo avevano conosciuto. «È un uomo di spirito», «Sa entrare nel cuore delle persone», «È umile», sono solo alcune delle affermazioni raccolte su don Olivo Dragoni.
Al CUM, centro missionario unitario di Verona dove ci incontriamo, lo conoscono tutti. C’era arrivato nel 1971, otto anni dopo esser diventato prete. Finalmente, dopo tante insistenze, il vescovo gli aveva concesso di partire per l’America Latina per andare ad aiutare quella gente, un desiderio maturato negli anni del Concilio in cui era cresciuta l’attenzione per il terzo mondo. «Così incominciò l’invio massiccio dall’Italia di suore, preti, laici – racconta – verso quelle Chiese povere ma vive. Questo “vive”, però, è stata una scoperta seguente. All’inizio si pensava di portare là preti, soldi, schemi pastorali… ma si capì che la povertà dell’America Latina era ricchezza. Perciò si passò dall’aiuto allo scambio».
Don Olivo, molto conosciuto nella diocesi di Lodi dove è stato parroco e direttore del centro missionario, alla fine, dunque, parte per la missione. Non, però, per stabilirsi in mezzo a quella povera gente come aveva immaginato, ma con il compito di seguire i preti diocesani italiani andati in missione, per far sentire loro la vicinanza con i loro vescovi e le comunità di provenienza.
Per quindici anni zingaro (la definizione è sua) in queste terre, incontra ed ascolta da “fratello” inviato dalla Conferenza episcopale italiana, suore, preti e, attraverso di loro, la povera gente, che gli fa toccare con mano le parole della Bibbia e sentire una «Chiesa viva». «In luoghi dove la speranza poteva svanire, dove la povertà poteva sfociare in rabbia – testimonia ­– ho incontrato persone povere innamorate della vita, con le mani vuote ma con il cuore pieno».
Incontri, storie, che ha pensato di racchiudere in Contagiare di speranza, libro pubblicato con Sempre Editore (2010), in cui l’autore cerca di intrecciare la ricchezza del panorama missionario con l’apparente povertà del vivere quotidiano. Un nuovo modo, per lui, di vivere la missione ora che si trova «appiedato» sulla sua carrozzina dalla sclerosi multipla. Dall’incontro con la povertà degli altri, dunque, a quella vissuta su di sé a causa della malattia, ma senza perdere la speranza, sapendo che «Dio è Padre di tutti».
 
Quindici anni trascorsi in giro per l’America Latina, ad incontrare i tuoi “fratelli” sacerdoti. Qual era il tuo compito?
«Lo scopo era di far sentire ai preti italiani, che si trovavano nei territori dell’America Latina presa in quegli anni da tante dittature, la vicinanza con i loro vescovi. All’inizio erano ben 873 i preti diocesani e andavo sul posto ad incontrarli, dando la preferenza a quelli che vivevano in zone pericolose o che erano più soli. Ascoltavo, sentivo le loro comunità, ammirandone le fatiche umane e gli eroismi spirituali: ho visto parecchia gente poi ammazzata».

Il Vangelo tra gli oppressi

Testimoniare il Vangelo in questi territori che significato ha avuto?
«La Chiesa era vista come un ostacolo all’invasione del capitale straniero perché predicava la condivisione, la fraternità, l'uguale dignità e difendeva i poveri. In America Latina, specie in alcune nazioni, c’erano dei veri martiri, soprattutto laici. In Guatemala, ad esempio, si calcola che dal ’75 all’’85 siano stati uccisi 1.500 catechisti del posto e 24 stranieri missionari: di questi ne ho conosciuti parecchi».
 
Come hai assaporato la presenza di Dio?
«Ho visto il Dio dei poveri, il Dio dell’Esodo, della solidarietà, l’Eucaristia e poi il martirio. La Chiesa era segno di contraddizione».
 
Nelle comunità di base si dibatteva anche se fosse lecito usare o no la violenza per combattere le ingiustizie.
«Questo si era sentito di più nel centro America dove la tensione tra regime e Chiesa era arrivata al massimo. La teologia della liberazione è nata sul posto, dalla situazione in cui vivevano questi popoli. I laici, gli animatori di comunità leggevano la Bibbia e la sentivano viva. Nelle parole di Isaia: “Signore sono stanco di guardare in alto” sentivano di essere dentro a quella vicenda. Il contesto in cui era nata la Bibbia in alcune sue parti era lo specchio della situazione che la gente viveva in quel momento e le domande che faceva a Dio erano simili: “Dove sei Signore? Dov’è la nostra liberazione? Noi preghiamo e i nostri figli scompaiono”. La teologia della violenza nacque dall’impossibilità di uscire dalla situazione di oppressione per vie legittime. Non sto giustificandola, ma avendo conosciuto quel contesto spiego come è nata».
Don Olivo Dragoni presso la sede del CUM di Verona, dove nel 2010 "Sempre" è andato a intervistarlo, in occasione della pubblicazione del libro "Contagiare di speranza".
Foto di Alessio Zamboni

L'incontro con la malattia

Dopo tanta sofferenza vissuta dagli altri, tu stesso sei passato dalla sofferenza fisica a causa della sclerosi multipla, che ti ha colpito nel 1992. Che significato hai dato a questo fatto?
«La spiritualità in una persona nasce da alcuni punti fissi del Vangelo. Il primo punto è la certezza che Dio è Padre, ed è Padre di tutti. Il secondo è che avendo visitato in America Latina tante sofferenze collettive, chiedendomi: “Che colpa hanno?”, la risposta che do al dolore è la certezza che nulla va perduto. Non c’è lacrima, non c’è gioia, amicizia, non c’è frammento di cosa bella compiuta, anche da non credenti, che vada perduta. Questi due punti chiave mi hanno aiutato anche ad interpretare il perché si fermano le gambe».
 
La preghiera?
«È essenziale e non ha una funzione consolatoria. Assume tanti toni: io prego sempre meno per me entrando in quel “sia fatta la volontà del Padre”. Se Dio è Padre e la sa più lunga di te, dire a lui: “Fa' tu”, ti conviene».
 
Nel tuo libro parli di una Chiesa viva. Cosa intendi con questa espressione?
«È il contagio di speranza che ho visto nascere dai poveri in contesti nei quali la speranza sembra andata in ferie. Ho avuto il dono di incontrare preti o gente del posto che hanno trovato motivi di speranza nella fede, nella solidarietà degli altri là dove noi, ricchi di cose, ci disperiamo più facilmente. Sperare in un mondo migliore in contesti nei quali non è possibile essere liberi, e guardare in alto e cantare: “Benedetto sia Dio”…  è un dono. Il povero ha il cuore più sgombro e le mani vuote per cui riesce a coglierlo; noi, con le nostre mani piene, non ci riusciamo».

Missionario nella vita quotidiana

Nei tuoi racconti emerge anche lo spirito missionario della vita quotidiana in Italia.
«Nell’immaginario comune il missionario è quello che ha fatto un po’ di chilometri. La dimensione missionaria della vita cristiana come tale, di qualsiasi vita, si è sviluppata arrivando a dare una valenza missionaria anche al quotidiano, anche alla sofferenza. Tonino Bello scriveva: “Gesù non ha mai corso così forte come quando ebbe i piedi inchiodati”. Anche nella vita quotidiana c’è l’assoluto di Dio».
 
Il tuo libro inizia con la storia di Conchi.
«Era una studentessa in Medicina ed andava a trovare sull’altopiano gli Indios perseguitati in mille modi. Portava viveri e li animava a resistere, a restare uniti, ad amarsi perché così dice il Vangelo. Ma i soldati non volevano, perché intendevano vendere quelle terre ad imprese straniere. Mi diceva: “Quando vado là, sono felice». E venne uccisa. Se offerta, la vita vale ancora di più».
 
Sei stato anche parroco qui in Italia. La speranza che hai vissuto in America Latina può contagiare i nostri giovani?
«La vita cristiana si ravviva in un giovane se avviene un incontro vero con il Signore e un contatto reale e personale con la povertà. Questo vale anche per i preti: se togli la preghiera e la povertà, viene fuori un mestierante. Il giovane forse è ostacolato da una cattiva immagine di Dio e anche da una vita nostra dove la ricchezza è sempre più proposta come una via per essere felice. È palpabile, però, la nostalgia di un altro tipo di felicità».
 
È possibile dunque sperare ancora?
«Tradotta, la tua domanda è: “Ma c’è ancora lo Spirito Santo?”. Se guardi gli Atti degli apostoli, chi dà speranza è lo Spirito Santo, che – il Concilio dice – lavora anche fuori dai confini della Chiesa. La Chiesa è vicina all’umanità più che mai».

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Don Olivo Dragoni insieme a don Oreste Benzi
Don Olivo Dragoni con Don Oreste Benzi
Foto di Archivio Sempre

Quello scambio di confessioni con don Benzi

Durante l'intervista, don Olivo ci ha raccontato anche il suo incontro con don Oreste Benzi, e un curioso aneddolo.

«Credo fosse il 1979 o l'80 – racconta don Olivo –. Venni chiamato dalla diocesi di Rimini a tenere gli esercizi spirituali per i sacerdoti della diocesi, al posto di un altro sacerdote che era ammalato. Mentre confessavo venne da me un prete che inginocchiandosi mi disse: “Qui c’è il prete più peccatore del mondo”. Fu quello il mio primo incontro con don Oreste. Da allora siamo rimasti legati da una sintonia che d’improvviso era nata in quei giorni di esercizi spirituali. Ci si incrociava per qualche circostanza un paio di volte l’anno e ogni volta ci confessavamo a vicenda».
L'ultimo incontro tra i due è avvento nel 2006, all'albergo “Madonna delle vette” di Canazei. Anche quella volta l'intenzione era di confessarsi, ma don Oreste era stato subito catturato da persone che gli volevano parlare, telefonate, incontri.
Dopo la messa celebrata assieme, ormai don Oreste doveva partire perché lo stavano già aspettando altrove. Allora, sulla porta dell’Albergo, «io ho messo la mano sulla sua testa – racconta don Olivo – e lui sulla mia e ci siamo detti: “Il Signore ti perdoni e ti benedica”».
Di lui, dice don Olivo, mi colpiva «la grande umiltà e l'amore - anzi, la stima - per i poveri». «Aveva solo un difetto – conclude – che mi presentava agli altri come un santo».