«Le prime esperienze di comunità terapeutica nascono negli anni 60 negli Stati Uniti. La filosofia di intervento prevedeva una residenzialità lifetime, per tutta la vita, perché la dipendenza da oppiacei veniva considerata una patologia irreversibile. Una soluzione di salvaguardia ad elevato livello di contenimento». A raccontare come nasce il la comunità terapeutica è Bartolomeo Barberis, per tutti Meo, di origine piemontese ma trapiantato in Romagna da quando ha conosciuto la Comunità Papa Giovanni XXIII e don Benzi.
E in Italia? «In Italia le prime comunità nascono verso la fine degli anni 70 e prevedono la scelta della residenzialità e la vita comunitaria come cura. Erano anche molto strutturate sul carisma personale del fondatore, basta ricordare don Picchi per il Ceis e Muccioli per San Patrignano. Anche la Comunità Papa Giovanni XXIII e don Oreste Benzi si possono annoverare tra i primi ad occuparsi della tossicodipendenza».
«La struttura fondamentale inizialmente si è delineata nelle tre fasi di accoglienza, comunità residenziale, e reinserimento. Da subito, a differenza di altre realtà si è data molta attenzione alla dimensione spirituale. Si è connotata – sempre inizialmente – per un forte livello di chiusura-isolamento per permettere tutela e salvaguardia rispetto all’abuso di sostanze ma anche per tutto il lavoro di revisione della propria storia che si fa in questo percorso».
«La casa famiglia ha poi modificato il nostro modo di intervenire. Nel 1984 a San Facondino si è avviata la prima esperienza che prevedeva l’esperienza terapeutica nel Centro diurno e l’aspetto residenziale in casa-famiglia. È emersa l’importanza nel percorso di recupero del contatto con l’handicap e l’emarginazione, della relazione con la vita della Comunità. Da chiusa quindi la comunità terapeutica è diventata più aperta e i percorsi più personalizzati, si sono aperte le UEP – unità educative centrate sulla preghiera – e le UEF – unità educativa familiare».
«La stragrande maggioranza di chi entra è dipendente da eroina. Nel corso degli anni questa situazione si è diversificata anche se l’abuso dei derivati da oppiacei è la prevalente. Oggi ci sono persone in cui la prevalenza è la dipendenza da alcool e ci siamo aperti alle “dipendenze senza sostanze”, come dal gioco d’azzardo e dal web».
Niente cocaina? «Sono percentuali molto basse, perché la dipendenza da cocaina è tipica di persone che mantengono comunque una certa capacità di adeguate performances sociali. Come per le cosiddette smart-drugs, i derivati delle metanfetamine, c’è in comunità terapeutica una percentuale bassa di abusatori solo di queste droghe. In genere sono sostanze assunte insieme agli oppiacei».
Non abbiamo parlato di Cannabis, forse la droga di cui si parla di più…
«La quasi totalità dei tossicodipendenti sono partiti dalla cannabis ma, nonostante questo, negli ultimi anni è aumentata una sorta di non-consapevolezza. Non è considerata problema da molti giovani e dalle famiglie, perché ci sono dei genitori che l’hanno usata tendono a minimizzare il problema, e poi ignorano o trascurano che la cannabis di oggi non è quella di 30 anni fa, ma è molto più potente.
Noi, in ogni caso, siamo contrari ad ogni forma di legalizzazione, soprattutto perché diventa un messaggio educativo contraddittorio, significa sdoganare la dipendenza come modo di essere al mondo».
«L’incontro con i derivati della cannabis oggi è molto facile. Le percentuali vanno ben oltre il 50% di ragazzi che "l'hanno provata". Altra cosa è iniziare un uso regolare e poi un abuso. I sintomi non sono facilmente individuabili – si nota un disagio crescente a livello scolastico e delle relazioni – perché sintomi simili sono comuni nell’adolescenza. Occorre valutare l’intensificarsi di queste sintomatologie: un crollo scolastico, un inasprimento immediato della conflittualità. Poi il ritrovamento di cartine… qualche “tocco di fumo”. Il dispendio economico immotivato va tenuto sotto controllo. Anche se per la cannabis, come per eroina e cocaina c’è oggi un crollo dei prezzi».
Quindi cala la consapevolezza e si sottovalutano i danni. Quali sono? «L’alta concentrazione dei principi attivi – continua Barberis – aumenta di 6 volte la possibilità di slatentizzare una patologia psichiatrica. Una fragilità a livello neurologico causa psicosi da uso di cannabis o eroina. Inoltre, o soprattutto, ogni tipo di dipendenza determina un progressivo inaridimento della sfera affettiva. Incrementa lo stato di isolamento, l’incapacità di costruire relazioni autentiche a livello sociale, familiare, affettivo. Questa modificazione è una delle conseguenze più negative. La persona che diventa dipendente a livello patologico diventa una persona sempre più incapsulata in se stessa e non capace – pur desiderandolo – di relazioni affettive autentiche».
«La dipendenza patologica da sostanze è la risposta sbagliata ad un bisogno autentico. Per il ragazzo o la ragazza è una modalità per cercare risposta all’ansia di vivere, all’angoscia esistenziale, alle paure che non si riescono a gestire. Queste risposte sono necessarie.
Ecco allora che il percorso terapeutico è il recupero da questa non-libertà, che in fondo è una schiavitù. Aiuta la persona a scoprire che ci sono modi diversi, più umani, di dare risposta ai bisogni essenziali della persona.
Mi piace citare una cosa che diceva spesso don Mario Picchi: “In fondo l’essere in comunità ha lo scopo di aiutare tutti noi a capire che io non sono né il nano delle mie paure né il gigante dei miei sogni”. Sogni deliranti, aggiungo io. Quindi in comunità fai un cammino per accettare con serenità i tuoi limiti e le tue risorse».
«Da 30 anni si continua a parlare dei problemi dei giovani, delle dipendenze. Gli adulti hanno dimostrato, ad esempio attraverso i totalitarismi, di diventare dipendenti dai pensieri malati di una persona (si pensi ad Hitler).
Ogni relazione contiene in sé elementi di dipendenza, ma l’unica vera dipendenza sana è dal rapporto con Dio. Un rapporto equilibrato con Dio, i fratelli, la natura, le cose».