il 25 luglio è entrata in vigore una direttiva Europea per responsabilizzare le aziende, ma non basta. Anche noi dobbiamo abbandonare la fast fashion: ecco due storie per convincerci a passare allo shopping responsabile.
Il 25 luglio 2024 in Europa è entrata in vigore la “Directive on corporate sustainability due diligence” (Direttiva 2024/1760). “L'obiettivo di questa Direttiva è promuovere un comportamento aziendale sostenibile e responsabile nelle operazioni delle imprese e presso le loro catene a livello globale”, spiega la Commissione Europea. Anche se è solo l’inizio del percorso, si tratta di un passo importante per riuscire a debellare una delle piaghe dell’economia sostenibile: la fast fashion. La fast fashion (“moda svelta” in italiano) si basa su uno shopping usa e getta, che comprende la produzione di grandi quantità di capi di bassa qualità e basso prezzo, che sono destinati a restare nei negozi in media dalle 2 alle 6 settimane. I problemi di questo modello di shopping sono moltissimi. Partendo dal compratore, che acquista abbigliamento scadente e potenzialmente dannoso per la salute. Poi, i lavoratori abbandonati allo sfruttamento, spesso in fabbriche costruite in paesi poveri dove non vengono rispettati i diritti dei lavoratori. A questo, si aggiunge il danno ambientale, che è enorme. Oltre allo spropositato consumo d’acqua (per una singola maglietta di cotone sono necessari 2.700 litri d’acqua, dati del Parlamento Europeo), ci sono i prodotti chimici rilasciati nell’ambiente: un articolo di Vogue riporta che la produzione tessile mondiale è responsabile del 20% circa dell'inquinamento globale. Ma non solo, il continuo ricambio di abbigliamento, all’inseguimento della moda stagionale, causa l’accumulo di tonnellate di abiti in enormi discariche di tessuti. Queste discariche, composte di tessuto di scarto, abiti usati o invenduti, sono una tragedia sia per l’ambiente che per le persone che vivono in quei luoghi. Secondo GreenPeace «ogni anno soltanto nell’Unione Europea vengono gettate via 5 milioni di tonnellate di vestiti e calzature (circa 12 chili per persona)».
Il deserto di Atacama in Chile, dune di sabbia e di tessuti
Tra le dune del grande deserto Atacama, nella costa nord del Cile, si trova una delle discariche più estese al mondo di abiti usati e invenduti, tanto vasta da vedersi chiaramente anche nelle immagini satellitari. 40mila tonnellate di vestiti si ammassano tra la sabbia, nella periferia di Iquique, in Cile, maggiormente composti di materiali sintetici che inquinano l’ambiente. Nel porto di Iquique, per mancanza di imposte doganali, i vestiti inutilizzati o scartati vengono sbarcati dall’Europa e dagli Stati Uniti a basso costo (Geopop parla di 60mila tonnellate all’anno). Poi vengono smistati e la maggior parte viene smaltita in discariche abusive. Quella nel deserto di Atacama è certamente sconvolgente, così emblematica da aver ispirato l’Atacama Fashion Week 2024. A maggio 2024, l’ ONG Desierto Vestido insieme a Fashion Revolution Brazil e Artplan, ha organizzato una sfilata in mezzo alla distesa di abiti spazzatura, per denunciare l’effetto tragico che la fast fashion sta avendo sul mondo, soprattutto nei paesi più poveri.
All’Africa non servono i nostri vestiti “donati”
Nemmeno il riciclo della beneficenza riesce a stare al passo con la fast fashion, causando più problemi che benefici. Un articolo di GreenPeace denuncia l’esagerata quantità di abiti che tramite le donazioni arrivano nei mercati africani e si accumulano poi in discariche. «All’Africa non servono i nostri vestiti scadenti» perché «l’Africa non è il vostro cassonetto dei rifiuti», sostiene l’articolo, parlando delle grandi discariche di tessuti a cui è condannata la città di Accra, in Ghana, una delle principali città dove arrivano i vestiti “donati”. È qui che si trova il mercato Kantamanto, uno dei più grandi mercati di seconda mano del mondo. In Ghana infatti arrivano circa 152.600 tonnellate di abiti di seconda mano ogni anno (solitamente di materiali sintetici), ma finisco spesso in discarica formando montagne di abiti spazzatura. Questa realtà ci insegna che spesso le donazioni di vestiti vengono fatte con l'obiettivo di liberarsi dei vecchi capi, non con quello di aiutare il prossimo.
Cosa possiamo fare?
Questi luoghi sono solo due delle tante realtà colpite dalla fast fashion. Quando giriamo nei centri commerciali e facciamo shopping, ricordiamo che dietro le insegne e i capi che acquistiamo spesso c’è inquinamento e sofferenza. Ma che fare a riguardo? Ovviamente, il vero cambiamento va fatto dall’alto, motivo per cui la Direttiva Europea 2024/1760 è un passo importante. Tuttavia, anche noi nel nostro piccolo possiamo contribuire al cambiamento, o quantomeno non contribuire a tale disastro ambientale. Molte riviste di moda e organizzazioni ambientali (come Vogue e GreenPeace) negli anni hanno dato consigli su come fare shopping in modo responsabile. Ecco, riassumendo, ciò che ne risulta:
Scegliere materiali naturali, che non abbiano un impatto dannoso sull’ambiente come i tessuti di plastica (i materiali naturali sono cotone organico, lana, lino, seta, canapa e bambù; mentre tra quelli di plastica ci sono poliestere, creato dal petrolio, Elastan e poliammide); un’altra soluzione è scegliere abiti di materiali riciclati (come i materiali Econyl e NewLife).
Non lasciarsi ingannare dalle mode del momento: cambiano dopo pochi mesi, spingendoci ad abbandonare gli abiti appena acquistati per prenderne altri. È meglio invece concentrarsi sulla qualità e non sulla quantità dei capi, optando per modelli lineari che rispecchiano i nostri gusti personali.
Sviluppare una conoscenza (e una coscienza) dei negozi che frequentiamo: prima di entrare in un negozio chiediamoci se rispetta l’ambiente e i diritti dei lavoratori. Questa scelta ci porterà ad evitare alcuni tra i brand più conosciuti, di cui spesso di sopravvaluta la qualità del prodotto e che sono stati più volte oggetto di scandalo per danni all’ambiente e\o ai lavoratori nelle loro fabbriche.
Cercare di limitare i ritorni e i rimborsi quando si acquista online. Fare shopping da casa è comodo, ma il trend di ordinare decine di capi per poi rispedirne indietro la metà è estremamente dannoso. Questo perchè buona parte dei vestiti viene poi buttata e perchè i trasporti sono inquinanti. Quindi è consigliato essere prudenti durante l'acquisto.
Prediligere il riutilizzo o la riparazione degli indumenti. Non siamo obbligati a buttare i vestiti che non si usano più e non è necessario comprarne sempre di nuovi. Ad esempio, si possono prendere o vendere vestiti usati, anche attraverso siti come Vinted.