Non è facile avvicinarsi ai bambini di Ferentari, un quartiere degradato di Bucarest. Sono feriti dalla vita. Ma mettersi accanto a loro può aprire squarci di relazione inaspettati.
Ferentari è il peggior quartiere di Bucarest, è il “ghetto” dove rimangono intrappolate tantissime persone, la maggior parte tossicodipendenti, molti rom e tanti bambini. Ma Ferentari è anche il luogo che mi è rimasto più nel cuore al ritorno dal mio anno di servizio civile. Ci andavamo ogni settimana per fare dei giochi, delle attività e dei laboratori con i tanti bambini che abitano nel quartiere. La prima volta che andai ci aspettavano pochi bimbi, che erano lì più per la curiosità di vedere il nuovo italiano che per farsi coinvolgere nelle attività. Prima del mio arrivo c’erano stati tanti cambiamenti, fra cui il ritorno in Italia dei due Caschi Bianchi dell’anno prima. Le aspettative su di me erano irraggiungibili e, infatti, rimasero veramente delusi, un ragazzo non è neanche più venuto.
Bambini che vivono in condizioni drammatiche
Ho poi capito la delusione di quei bimbi, che a me, lì per lì, mi lasciò un po’ offeso. Io, semplicemente, non ero quei due ragazzi che erano appena andati via e, per loro, lo spazio dell’intimità è costellato di ferite mai rimarginate che poi infettano anche il resto. Vivono quotidianamente dei drammi che io non saprei affrontare, dalla violenza della società nei loro confronti al disagio delle loro famiglie, all’interno di appartamenti che sono sudicie camere di pochi metri quadri, in condomini in cui i pavimenti delle scale sono ricoperti di siringhe. Le strade dove giocano le condividono con i tossicodipendenti che vagano sotto effetto di qualche droga, con gli spacciatori che gli urlano contro e con le macchine delle forze dell’ordine. La solitudine e la violenza in cui vivono, ai loro occhi, sono il normale corso delle cose. Lo spazio della vicinanza che speravo di conquistare era talmente ferito che era stato ricoperto di una spessa armatura ed io rappresentavo l’ennesimo “attentatore” che avrebbe riaperto ferite affettive che poi non sarebbe rimasto a curare. Confesso che in fondo avevano ragione, perché poi sono tornato in Italia, anche se ogni tanto vado a trovarli. Però, poi ci siamo voluti un bene così profondo che ha scardinato tutti i miei parametri relazionali.
L'importanza di creare legami, che curano loro e salvano me
I ragazzini di Ferentari mi hanno mostrato la banalità di un bene che si rivela normale, ma che ha una potenza straordinaria. Ogni abbraccio, ogni gioco insieme e ogni legame ha il gusto di una conquista raggiunta insieme, camminando accanto, scoprendosi e corrompendosi un po’. Un percorso in cui nessuno perde, nessuno rischia e tutti ne siamo usciti diversi. Perché, per loro, ha significato la scoperta di valere qualcosa in più rispetto a ciò che la loro quotidianità gli mostra. Io, invece, ho scoperto che “compromettermi” donandomi con leggerezza, amandoli teneramente, facendogli stravolgere la mia vita, ha creato, sicuramente per me e spero anche per loro, un futuro nuovo. Il servizio civile mi ha un po’ salvato la vita perché ho scoperto di poter essere terreno fertile per le vite di chi incontro, perché mi ha dato la prova che ciò che posso dare io, non lo darà nessun altro per me.
di Filippo Carroli
Filippo Carroli ha 24 anni e viene da Rimini. È laureato in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali. Ha scelto il servizio civile perché «dopo aver conosciuto la Romania grazie ai campi Fuorilemura, ho sentito che era giusto cercare di restituire il bene che quella terra ha fatto alla mia vita, e perché volevo capire che direzione prendere».