Tutte queste esortazioni finali del Messaggio in qualche modo fanno venire in mente l’insegnamento di don Oreste. «Usciamo dall’indifferenza» ricorda (cito a memoria) quel «Adesso che hai visto, non puoi più vivere come prima» che ripeteva spesso ai giovani che avevano vissuto un periodo di vita dentro la Comunità Papa Giovanni XXIII.
«Scoprire la propria vocazione nella Chiesa e nel mondo e diventare pellegrino di speranza e artefice di pace!». Si può dire che questo richiamo sia un corpo centrale dell’insegnamento di don Benzi, sia come parroco alla Resurrezione di Rimini, sia come fondatore e presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII. Lui sollecitava ogni cristiano a riscoprire il proprio battesimo e ad acquisire la coscienza di essere parte di un popolo che ha una vocazione regale, sacerdotale e profetica da esercitare nel mondo. Dove “ogni cristiano” stava proprio per tutti: anche i disabili, i poveri, gli emarginati hanno una vocazione nella Chiesa per il mondo.
Andiamo avanti nell’esame della parte finale del Messaggio.
«Appassioniamoci alla vita e impegniamoci nella cura amorevole di coloro che ci stanno accanto»: qui siamo al cuore della proposta di don Benzi: la condivisione. E infine quel «abbiate il coraggio di mettervi in gioco!» riecheggia il suo tormentone, «Dai, ci stai?», rivolto ai giovani che voleva coinvolgere.
L’ultima frase, riferita esplicitamente al sacerdote, è una citazione quasi letterale, anche se la frase ha una costruzione inversa. Infatti, negli scritti di don Oreste compare per la prima volta nel 1984 in questa forma: «La legge per il cristiano è l'amore. Ognuno detiene il bene dell'altro e se tu non lo dai sei un ladro perché siamo tutt'uno in Cristo. Nessuno è così ricco da non avere bisogno di niente, nessuno è così povero da non avere niente da dare. (Relazione al convegno nazionale "Ripartire dagli ultimi" - Rimini – 9 settembre 1984)
Ci riferiamo agli scritti perché negli incontri, nelle conferenze, chissà quante volte ha usato questa frase così espressiva della sua antropologia: «l’uomo è un essere in relazione».
Molto tempo dopo, siamo nel 1998, il concetto è espresso nel suo significato globale: «La condivisione scaturisce dalla presa di coscienza che nessuno può vivere solo perché l'uomo è un essere "per" nell'intima sua essenza, che nessuno è così "ricco" da non avere bisogno di nulla e che nessuno è così povero da non avere nulla; nell'incontro con un "tu" la persona prende coscienza del proprio io. Solo trovando questo “tu” ogni uomo diventa un "noi", questo tu parte dall'incontro con un tu infinito, Dio che dà la pienezza all'io e si forma un noi. Questo "noi" universale diventa un noi pieno di gioia e di voglia di vivere. (dalla prefazione al libretto “Conoscere per Amare…” Corso teorico per operatori C.T.).
Era certamente una espressione che don Oreste usava di frequente e che usava per giudicare gli avvenimenti della vita e della storia.
Nel 2004 la impiega su Sempre per parlare di Jacopo, un bimbo morto per essere stato abbandonato in un prato della periferia di Modena.
«Carissimo, nella morte di Jacopo non c'è solo la responsabilità di sua madre. Dinnanzi ai poveri nessuno ha le mani pulite. La società non sa accettare se stessa: un insieme di persone complementari le une alle altre. Cristo è entrato nella nostra umanità. Ognuno deve impegnarsi e dare tutte le sue capacità agli altri. Nessuno è così povero da non avere nulla da dare, nessuno è così ricco da non avere bisogno di nulla. Bush, nella sua campagna elettorale, ha detto che spazzerà via il welfare. Ogni americano basta a se stesso. Il risultato di questo spaventoso individualismo è lo stato permanente di guerra. Se ognuno di noi non fa il possibile per non lasciare soffrire nessuno da solo, saranno innumerevoli gli Jacopo che ci grideranno: "Perché non avete fatto nulla per mia madre?". lo sono convinto che devo chiedere scusa a Jacopo».
(da “Don Oreste risponde” – SEMPRE n. 9 - ottobre 2004)
Il titolo del documento papale è Chiamati a seminare la speranza e a costruire la pace. Francesco parte sottolineando «La polifonia dei carismi e delle vocazioni, che la Comunità cristiana riconosce e accompagna, - anche questo un grande tema benziano - ci aiuta a comprendere pienamente la nostra identità di cristiani: come popolo di Dio in cammino per le strade del mondo, animati dallo Spirito Santo e inseriti come pietre vive nel Corpo di Cristo, ciascuno di noi si scopre membro di una grande famiglia, figlio del Padre e fratello e sorella dei suoi simili».
Il Papa invita tutti a farsi pellegrini di speranza e di pace ricordando che «Il senso del pellegrinaggio cristiano è proprio questo: siamo posti in cammino alla scoperta dell’amore di Dio e, nello stesso tempo, alla scoperta di noi stessi, attraverso un viaggio interiore ma sempre stimolato dalla molteplicità delle relazioni. Dunque, pellegrini perché chiamati: chiamati ad amare Dio e ad amarci gli uni gli altri».
Il momento che viviamo è drammatico: «l’avanzare minaccioso di una terza guerra mondiale a pezzi; le folle di migranti che fuggono dalla loro terra alla ricerca di un futuro migliore; il costante aumento dei poveri; il pericolo di compromettere in modo irreversibile la salute del nostro pianeta».
Ma c’è una speranza: si tratta della promessa che il Signore Gesù ci ha fatto di restare sempre con noi e di coinvolgerci nell’opera di redenzione che Egli vuole compiere nel cuore di ogni persona e nel “cuore” del creato. Tale speranza trova il suo centro propulsore nella Risurrezione di Cristo, che «contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali».