Visita ai giovani della Comunità Papa Giovanni XXIII di stanza a Baghdad.
Alberto (nome di fantasia) è arrivato in Medio Oriente, incurante dei venti di guerra che già soffiavano forti in tutta la regione, nel dicembre 2015. Adesso vive in Iraq, in un tranquillo quartiere della capitale, Baghdad. Svolge volontariato come missionario nella casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII e spera di riuscire ad accogliere alcuni ragazzi disabili. Risponde alle tensioni fra Iran e Stati Uniti, che hanno visto l’Iraq come terreno di battaglia, camminando per le strade. Circa 300 manifestanti sono stati uccisi nei mesi scorsi durante alcuni scontri cruenti in città; esplosioni e autobombe piazzate al mercato hanno mietuto centinaia di vittime negli anni fra il 2016 e il 2018. Ma lui non trova motivi di aver paura e ha deciso di restare.
«Preghiamo perché prevalga sempre il dialogo e non la follia dell'uso delle armi, che possono accendere un conflitto che rischia di risultare pesantissimo per la popolazione in tutto il Medio Oriente»: Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, ha rilanciato ad inizio del gennaio 2020, sulla propria pagina Facebook l'appello di Papa Francesco perchè non si scatenino nuove guerre.
Ramonda ha rassicurato sulla presenza dei figli spirituali di Don Benzi in Iraq: «La Comunità Papa Giovanni XXIII resta a Baghdad, rimanendo al fianco dei più poveri e delle persone diversamente abili. Viviamo e condividiamo, soffrendo insieme a loro, la vita del popolo iracheno».
E in effetti Alberto, raggiunto al telefono, racconta della costruzione della pace attraverso le fatiche di una quotidianità che ormai è rodata. Testimonia la vicinanza alle persone emarginate.
La guerra si vince camminando
«Camminiamo per le strade, perché i marciapiedi non ci sono. Un giorno dopo l’altro, in silenzio. Le persone disabili in Iraq, come in generale in tutti i paesi del Medio Oriente, vivono in genere nascoste, ai margini. Sono considerate un peso, e culturalmente vengono visti come una maledizione mandata da Dio».
In Iraq, volontario fra i disabili
«Qualcuno ci ferma e ci saluta, e i sentimenti che incontriamo sono sempre di apertura e di apprezzamento. Ormai siamo conosciuti nel quartiere; camminare fra la gente trasmette un segnale di distensione, di pace e di condivisione. La disabilità esce dall’emarginazione e cambia chi la incontra».
Alberto ha iniziato da qualche mese ad invitare a casa propria, dove vive con un altro volontario, tre ragazzi in particolare, affetti da gravi disabilità. Li ha incontrati nella casa delle suore di Madre Teresa e sarebbero destinati, alla maggiore età, a venire rinchiusi in istituti-caserma per malati mentali. Eppure per loro lui ha in mente altro. Alcuni giorni alla settimana vengono a pranzo, poi vivono la quotidianità della casa famiglia.
«Portiamo in Iraq la mentalità che le persone con disabilità non vanno considerate come soggetti da assistere, ma come protagonisti di una nuova umanità», spiega. «Ci muoviamo molto liberamente nel quartiere, fra la gente. Quando entro nelle attività commerciali mi chiedono: “di dove sei” e io non ho mai seguito il consiglio di dire “sono turco” per ingraziarmi le persone. Ho sempre ricevuto il benvenuto, da italiano, con una presenza piccola che ha un significato di speranza grande. In qualche modo la mia presenza silenziosa lascia intendere che un domani migliore, senza conflitti continui e guerre, è possibile. Le persone mi salutano, mi abbracciano, si commuovono».
In Medio Oriente per restare
Molti volontari ed attivisti inviati dalla cooperazione internazionale in Iraq sono stati richiamati alla base dalle proprie organizzazioni non governative, non appena i venti di guerra del Medio Oriente hanno iniziato a soffiare più forte.
Ma Alberto resterà qui: «Quando l’Iran ha lanciato i missili sulle basi americane di Baghdad, alle persone con cui sono — e ai giovani attivisti dell’Iraq Social Forum — ho annunciato che sarei restato. Gli amici si sono proprio stupiti; mi hanno stretto la mano compiaciuti. Degli stranieri che c’erano pochissimi son rimasti. A novembre noi della Papa Giovanni XXIII siamo stati fra i pochi occidentali a partecipare alla maratona della pace di Baghdad».
Del resto Alberto non vede elementi di cui preoccuparsi.
«Le sirene che chiamano alla guerra, qui in Iraq non si percepiscono come all’esterno. La persone di qui mi raccontano che da quando sono nate, anche 30 anni fa, sono sempre state in una situazione di guerra o di forte conflitto sociale; oggi sono loro a chiedere a me come vivo io, se ho dei timori. E io non vedo difficoltà nel vivere in un paese come questo. Le tensioni sono internazionali, fra stati, fra superpotenze. Qui sul terreno l’unico rischio sono persone facinorose, isolate, che per spirito di appartenenza o di orgoglio personale possono lasciarsi andare alla violenza. Ci sono dei battitori liberi che sparano colpi di mortaio verso obiettivi stranieri o verso la Zona Verde e che talvolta sbagliano il bersaglio. Ma la gente qui dopo ogni attentato riprende la vita comune di ogni giorno. Lo stesso era nel 2016, quando pareva che in ogni momento l’Isis potesse invadere la città, e intanto si andava al mercato a comprare da mangiare. La popolazione cerca la pace».
Era stato Mons. Giorgio Lingua, nunzio apostolico di Iraq e Giordania fra il 2010 e il 2015, a proporre alla Comunità Papa Giovanni XXIII di aprire questa realtà di accoglienza. «Quando un Vescovo ti chiama è il Signore che sta investendo su di te: è una responsabilità non indifferente — spiega Alberto. — Ormai con questi ragazzi ho instaurato un rapporto di familiarietà che non mi sento di tradire. Ci sono delle persone con disabilità che mi stanno a cuore e che vedono in me l'unica speranza di non finire negli isituti per i reietti della società. Confido nel progetto che il Signore ha pensato per me e per loro».
Da Roma volontario in Iraq
Nella casa di Baghdad vivono in questo momento due volontari, missionari della Comunità Papa Giovanni XXIII. Con loro sta una persona anziana, un iracheno rimasto solo. Poi c’è qualcuno che ogni tanto viene dall’Italia a dare una mano, per un breve periodo. Alberto è di Roma, figlio dell’esperienza di condivisione in alcune case di accoglienza con adulti senza fissa dimora e con persone con disabilità del Lazio. La proposta di andare in Iraq è arrivata inaspettata.
«Gli iracheni come primo approccio sono piuttosto diffidenti, vista la propria storia, ma un po’ alla volta le difficoltà sono state superate. Personalmente in questo momento vivo una situazione abbastanza stabile, che mi porta a voler rimanere qui come fossi in famiglia. Certo, qui i cristiani stranieri vivono lo scenario un po’ stretto di chi deve fare i conti con un contesto culturale completamente diverso dal proprio; entrare in società richiede una certa fatica, e tempi lunghi».
Alberto lancia un messaggio alla propria famiglia in Italia: «Le notizie che parlano di tensioni internazionali viaggiano come le bombe, ma qui non abbiamo nessuna percezione di rischi imminenti». E scherza al telefono con i familiari, anche quando la tensione e la preoccupazione all’altro capo della cornetta sono palpabili.
Resta la difficoltà della lingua: «Parlo un iracheno abbastanza semplice, colloquiale. Chi mi aiuta nell'imparare il particolare dialetto di qui è uno dei ragazzi disabili che incontriamo: ha le articolazioni atrofizzate e grandi problemi di vista, ma una memoria formidabile che gli permette di imparare in fretta le lingue, e di insegnare».
Come partire volontario per l'Iraq
La comunità Papa Giovanni XXIII organizza periodicamente dei corsi per chi è interessato a partire per svolgere un periodo di volontariato all’estero.
«C’è un ragazzo cui sono molto legato che vorrei chiamare a vivere — quando l’iter legale lo consentirà — con me. Cerco però qualcuno che si affianchi nell’accoglienza in maniera stabile. Questo ragazzo soffre di autismo e di sindrome di down. Mi piacerebbe trovare un aiutante che sapesse l’inglese, perchè mi aiuterebbe molto nelle relazioni sul territorio».