Una crisi politica e di sicurezza iniziata quasi 3 anni fa, con l'uccisione del presidente eletto Jovenel Moïse, e degenerata il 29 febbraio 2024 quando i gruppi armati hanno attaccato la capitale Port-au-Prince, ormai quasi interamente controllata. A nulla sembrano per ora essere servite le dimissioni del primo ministro Ariel Henry.
Per cercare di capire il clima che si respira oggi e quali speranze ci sono per il futuro abbiamo contattato Valentina Cardia, missionaria ad Haiti per 12 anni, e il marito haitiano Segui Jean, ora in Italia con i sette figli.
«La situazione è di grande pericolo», conferma Valentina, «La famiglia di Segui e i ragazzi haitiani con cui siamo rimasti in contatto ci dicono che le scorte alimentari sono molto limitate e che il sistema sanitario è al collasso. Nel quartiere in cui si trova la casa della Comunità Papa Giovanni XXIII è meglio non uscire, una delle maggiori prigioni da cui sono evasi i detenuti con l'aiuto delle bande armate è proprio lì vicino».
Dal 2015 al 2021 Comunità Papa Giovanni XXIII ha gestito il "Fwaye Papa Nou", una casa diventata famiglia per gli abitanti vulnerabili della zona, già feriti da violenze e discriminazioni di ogni sorta in una terra così difficile e martoriata.
«Sono ormai 3 anni che in casa non ci sono missionari», commenta con dispiacere Valentina, «Noi siamo rimasti fino a novembre 2021, circa 5 mesi dopo l'assassinio del presidente, poi siamo dovuti fuggire in Repubblica Domenicana perché rimanere era troppo rischioso, per noi e per le persone che frequentavano il nostro centro».
Oggi la struttura è concessa in comodato d'uso a una sorella missionaria che vive nel nord del paese e che periodicamente deve recarsi in capitale per le cure mediche, nella speranza che prima o poi possa tornare a essere quello che era: un focolare vivo che ospitava attività pomeridiane con i bambini del quartiere e che garantiva borse di studio, servizio di acqua e di elettricità, accoglienza a mamme con bimbi disabili e distribuzione di pacchi alimentari mensili alle famiglie più povere.
«Vedere che il mio popolo sta soffrendo così tanto è un dolore immenso», racconta Segui, «Le persone rischiano la vita ogni giorno ed io sono davvero molto preoccupato per la mia famiglia. Pochi giorni fa mia sorella è dovuta rimanere nascosta per tre ore perché nella zona in cui si trovava hanno iniziato a sparare. Quel giorno hanno sparato tutto il giorno in ogni parte del paese. Noi siamo riusciti a rintracciarla solo verso sera, sono state ore di grande apprensione».
Essere positivi in questo momento storico è davvero difficile.
«Qui ormai parliamo di una guerra civile interna tra oltre 200 bande armate che si stanno ammazzando tra di loro», conclude Segui, «Ecco perché penso che la situazione possa risolversi solo in due modi: con un intervento da fuori che tolga le armi a tutti gli attori in gioco o con un cambiamento reale della mentalità generale. Sono gli haitiani stessi che si stanno facendo del male e solo loro possono salvare Haiti».