Salvatore ha uno sguardo intenso e dolce. Ha 35 anni ed è originario della provincia di Sassari. Oggi si può dire che esprima appieno il nome che porta, Salvatore appunto, ma prima è stato lui ad essere salvato.
Quando racconta di sé gli occhi si illuminano, lasciando trasparire incredulità per quella sua vita passata così piena di tormento: «Quasi 20 anni di abuso di sostanze, a 30 anni ero più morto che vivo». Ciò che lo rammarica è che con le sue scelte ha fatto soffrire molto chi gli è stato vicino. Ma da chi lo ha amato ha trovato aiuto: «È stata mia madre che mi ha aiutato a decidere di salvarmi, ormai ero arrivato alla fine. Ogni giorno speravo di non svegliarmi più».
Il Salvatore di oggi è un punto di riferimento per alcuni ragazzi che hanno problemi di dipendenza da sostanze: «Do una mano a chi vive quello che io ho vissuto in passato». Quattro anni fa era toccato a lui. Era arrivato nella Comunità Terapeutica della Papa Giovanni XXIII di Ischia per iniziare il cammino di recupero dalla tossicodipendenza col desiderio di riprendere in mano la propria vita.
Il suo è stato un percorso difficile e tortuoso, fatto di ripensamenti e prove da superare. Una lotta continua con se stesso per non dipendere più da cio che per tanti anni gli aveva rubato l’umanità, la capacità di amare veramente.
«Ho iniziato i primi spinelli a 12 anni, per scoprire cose nuove, per curiosità. Col tempo ti accorgi che non puoi più farne a meno. Ci sono disagi che hai nascosto e non hai mai affrontato. L’occasione per iniziare si trova sempre, almeno nell’ambiente da cui provengo, in cui l’uso di alcol e droghe, era considerato come una cosa normale. Dopo un anno ho iniziato a provare di tutto: pastiglie, cocaina…»
«In prima superiore ho lasciato la scuola commerciale. L’avevo scelta solo perché ci andavano degli amici. Dopo la scuola ho fatto un po’ l’ambulante occasionale, a 20 anni ho iniziato a lavorare in una casa di riposo. Ho vissuto sempre aspettando qualcosa che non arrivava mai. A 13 anni volevo averne 15, a 15 volevo averne 20.
Ero circondato da amici, ma in realtà erano legami mediati dalle sostanze che usavamo. Mi ero anche fidanzato, la mia ragazza non voleva che facessi uso di sostanze, io continuavo di nascosto, alla fine ci siamo lasciati. Non provavo veri sentimenti, pensavo a me stesso e in realtà mi stavo distruggendo.»
«Quando sei dipendente l’unico motivo della giornata è trovare la droga. Lavoravo in casa di risposo e avevo accesso ai farmaci: era una grande tentazione, perciò facevo di tutto. Ero spesso in malattia, ma la vera malattia era la dipendenza. Se io sono qui adesso è per un vero miracolo. Una volta non ci credevo, adesso me ne rendo conto.»
«Io non mi sono mai accettato. Mi manca una mano dalla nascita. Quando avevo 11 anni poi mi è morto un fratello - lui ne aveva 25 - e la nostra famiglia si è spaccata. Adesso che ho fatto il mio cammino, la mano per me non è un problema, faccio tutto lo stesso.»
«Ormai ero a pezzi, avevo debiti, non riuscivo a pagare la macchina, non riuscivo più a lavorare, scappavo da tutto e da tutti. Sentivo che era finita. Disperato, ho chiesto aiuto a mia madre, le ho detto: “Io sono morto, fai tu”. Lei mi ha proposto di entrare in comunità. Il 23 settembre 2020 ho iniziato il cammino in una comunità terapeutica a Ischia. Qui i miei problemi mi sono stati sbattuti in faccia. È stata dura.»
«Dopo un anno sono andato via, non riuscivo a gestire la verità, quando fai uso di sostanze diventi un bugiardo cronico. Ho fatto per una settimana il barbone in giro per Napoli. Ho pensato di tornare a casa, ma mia madre mi ha detto che così non mi voleva, ed è stata la mia fortuna. Allora ho chiesto alla CT di tornare. Per un po’ ho tenuto dentro i miei segreti, le mie bugie. Nadia e Riccardo, i responsabili, mi hanno accompagnato a capire chi ero veramente, che io non ero quello che volevo far credere. Piano piano mi sono liberato ed è iniziata la mia rinascita. È stato determinante per me il fatto che loro sono una coppia con figli. Si è creato quel legame che io avevo perso, e i loro figli li sento davvero miei fratelli.»
«Ora provo tenerezza per quel ragazzino che ero, e allo stesso tempo provo rabbia per il male che ho fatto a me stesso e agli altri. Quando ho a capito che mi era stata ridonata la vita ho trovato una nuova missione: aiutare gli altri.»
«Io non credevo, però qui nella CT c’è la cappellina e mi ha aiutato. Dicevo a Dio: “Io non credo in te, ma sto comunque qui un po’. Non è sceso un raggio dal cielo, ma ho sentito la sua presenza. Ora sto anche facendo un cammino di verifica della vocazione della Comunità Papa Giovanni XXIII.»
«Voglio vivere, non sopravvivere. Prima ero concentrato sui miei problemi, ora percepisco di far parte di un “noi”. Mi piace molto la vita comunitaria. I figli della coppia responsabile li sento davvero miei fratelli, si è creato un legame che va al di là del percorso che ho fatto.»