Quando e come è nata l’idea di partire con Operazione Colomba? E perché proprio in Palestina?
«Un anno fa sono stato ad un evento organizzato da Operazione Colomba, dove c'era un ragazzo di At-Tuwani, un villaggio nel sud della Palestina, che era lì per portare testimonianze, in una sala piena. Un anno fa ero dall'altra parte ad ascoltare ed ho capito l'ingiustizia enorme che vive la gente di Palestina. Sentivo che volevo dare il mio contributo e vedere le persone, toccarle, ascoltare il loro urlo di dolore. Ho scelto la Palestina perché lì c'è un'ingiustizia enorme che va avanti da troppo tempo, e anche se facciamo finta di niente, anche noi – paesi ‘occidentali’ – ne siamo responsabili visto che appoggiamo Israele in modo acritico fin dalla sua nascita. Credo sia importante essere vicini a chi è vittima di ingiustizia non in senso teorico, ma vicini fisicamente, per conoscerli con rispetto e cambiare l’immagine distorta che spesso abbiamo di loro.»Come hai affrontato la decisione rispetto alla tua carriera e la tua famiglia?
«Riguardo la mia famiglia non è stato facile, mia moglie non era felicissima perché era preoccupata, mentre i miei figli mi sostenevano anche perché sono molto vicini alla causa palestinese. Ora non lavoro più come prima e posso dedicarmi alle mie passioni. Ho lavorato per tanti anni all'ONU, che è un ambiente molto vario e arricchente ma mi mancava il contatto fisico con la realtà. Mi occupavo di questioni globali, ma sentivo il bisogno di esperienze a livello molto più umano: vedere le persone, i visi, vivere e condividere.»Come è stato l’impatto al tuo arrivo?
«La prima impressione che ho avuto è stata la sensazione di arrivare in una terra di nessuno tra il confine giordano e quello – teoricamente – palestinese ma di fatto controllato da Israele. Dal lato israeliano c’è la presenza ossessiva della bandiera e una ricchezza di simboli israeliani messi in evidenza. Una delle prime cose che ho vissuto è stato il viaggio in taxi insieme a una famiglia di palestinesi, una coppia con figli e l’anziana madre. Erano felici per aver appena compiuto il pellegrinaggio alla Mecca. Ma a un certo punto ci siamo bloccati in una lunga coda per un checkpoint israeliano. Ho visto in quel momento l’espressione cambiare sul volto del padre: la contentezza che svaniva mentre realizzava di essere tornato alla normalità di casa sua, con le truppe israeliane che istituiscono posti di blocco arbitrari per controllare i palestinesi in transito e causano quindi congestioni e perdite di tempo, giusto per ricordare chi comanda in quella terra.»Come era la tua quotidianità?
«Arrivai nel piccolo villaggio di At-Tuwani – che si trova nella zona di Masafer Yatta – molto carino ed immerso in colline sassose, ricoperte da ulivi e piante grasse. Essendo estate ci muovevamo la mattina presto per il caldo. Accompagnati da H., palestinese del villaggio che accoglie i volontari di Operazione Colomba, svolgevamo i vari compiti. Avevamo un telefono su cui ci scambiavamo messaggi con tanti attivisti della zona ed era lo strumento per coordinare le nostre azioni e, a seconda dei giorni o del momento, decidevamo le azioni da intraprendere per sostenere chi aveva bisogno di aiuto. Magari ci recavamo dove i coloni pascolavano sulla terra palestinese con le nostre telecamere, o semplicemente accompagnavamo un palestinese in un viaggio verso una zona rischiosa, oppure andavamo in zone dove coloni israeliani compivano azioni di sabotaggio o assalti veri e propri. A volte non c'era molto da fare, a volte invece si continuava a correre da un luogo a un altro. Poi, due o tre volte a settimana, andavamo a dormire da altre famiglie che vivono in case isolate, per farli sentire più tranquilli.»Hai mai avuto paura?
«Sì, in alcuni momenti. In generale vedere costantemente coloni e militari armati non è rilassante, perché non siamo abituati a vedere così spesso le armi. Per fortuna, siamo quasi sempre insieme a persone palestinesi e loro, essendo abituati a questo, restano così calmi che sono loro a darci tranquillità, mentre dovrebbe essere il contrario. E poi ci sono stati episodi particolari, soprattutto una notte quando fu aggredito un ragazzo di una ONG, durante un assalto di un villaggio ad opera dei coloni israeliani. Purtroppo, i coloni e le forze di occupazione (polizia ed esercito israeliani) sono sempre più infastiditi dalla presenza di cittadini internazionali – testimoni scomodi delle loro violenze – e cercano quindi di allontanarli in vari modi. Arresti temporanei, espulsioni ma anche, talvolta, aggressioni fisiche.»Hai mai avuto contatti con i militari?
«Un giorno ci fu una demolizione di una casa vicino a At-Tuwani. Sono momenti terribili: i militari e la polizia arrivano all’improvviso, si fermano davanti a una casa e danno 5 minuti di tempo alle persone di uscire e di portare fuori le cose importanti. Poi, in pochissimi minuti, la demoliscono lasciando per strada un’intera famiglia (dieci persone in quel caso). La giustificazione ufficiale è che si tratta di costruzioni abusive, ma ottenere i permessi per edificare è pressoché impossibile per le persone palestinesi, che sono quindi costrette a costruire le loro abitazioni senza autorizzazione. In quell’occasione cercavo costantemente di guardare negli occhi quei militari, ma non ci riuscivo.»Cosa cercavi di vedere nei loro occhi?
«Gli dissi che un giorno sentiranno la vergogna di quello che stanno facendo. Cercavo di guardarli negli occhi perché ero arrabbiato, ma loro tenevano lo sguardo basso. Mi sono reso conto che loro non sono interessati a vederci, sono isolati nella loro bolla. Alla fine, questo “noi e loro” dipende solo dalla mancanza di volontà di avvicinarsi. E la realtà dimostra che questa mancanza di volontà è da una parte, quella israeliana.»Credi che la rabbia, derivata dalla visione di ingiustizia, sia stata un ostacolo per la tua missione?
«Sono felice di aver fatto questo passo, anche se risulta spesso debilitante. Ci sono momenti in cui senti una rabbia terribile. Rabbia e frustrazione, soprattutto nei giorni in cui mi capitava di sentirmi inutile. Tuttavia una cosa bellissima di queste esperienze è che ci sono sempre momenti per condividere e stemperare i sentimenti. In gruppo ci si aiuta a superare la rabbia e ritrovare l'equilibrio. La rabbia è un lusso che non possiamo permetterci: bisogna star calmi per far fronte a questa ingiustizia. La giusta vicinanza, la chiamano.»Cosa ti hanno lasciato le storie delle persone che hai incontrato?
«La verità è che sono persone normali: vivono in un piccolo villaggio, in un'area dove la maggior parte della gente vive di pastorizia, di agricoltura, di cose semplici. In loro c’è un grande senso di ospitalità e di comunità, condividono ciò che possono con te e ti senti immerso in questo calore. Nonostante si tratti di persone normali, la situazione eccezionale in cui vivono da decenni li ha dotati di una pazienza, una costanza e una forza incredibili, che gli permettono di far fronte a grandi difficoltà.Hai conosciuto anche degli Israeliani, però, che hanno preso una strada diversa da quella dell’odio. Cosa mi dici di loro?
«Ci sono persone Israeliane volontarie che fanno quello che facciamo noi due o tre volte a settimana, sono sempre in prima linea diciamo. Li ammiro molto perché vivono in una società che è impregnata di suprematismo e militarismo e, pur essendo un gruppo molto piccolo della popolazione israeliana – ricordiamocelo - danno un segnale di speranza. Per loro è stato difficile intraprendere questo percorso di conoscenza e comprensione, soprattutto perché fino al 7 Ottobre in Israele non si parlava più di Palestina. Ci vuole molta forza da parte loro, perché facendo questa scelta diventi quasi un traditore per la società.”Questo ci mostra che non ci sono buoni o cattivi, ma una mentalità sbagliata, che forse si potrebbe sconfiggere attraverso la comprensione dell’altro ed il dialogo. Cosa ne pensi?
«Credo che sia fondamentale. Ma purtroppo è la cosa che gli Israeliani cercano di evitare in tutti i modi. Perché quando si stabilisce un contatto, una relazione, la situazione cambia: riconosci che c'è un altro, che siete in due e ci sono più parti da rispettare. Il passaggio che è necessario fare è stabilire una relazione tra palestinesi e israeliani, tra chi abitava lì e chi è arrivato lì occupando la terra scacciando con la forza e la violenza chi c’era. Sarà un percorso lungo, lunghissimo, che – secondo me - dovrà necessariamente passare per una fase di isolamento internazionale di Israele. Solo questo potrà spingere la società israeliana a riflettere seriamente su quali basi vuole continuare a esistere: uno stato che si pone sopra agli altri e basa la propria sicurezza – e la propria identità - sulla violenza e sulla sopraffazione oppure uno stato che vede nella giustizia e nelle relazioni paritarie con gli altri popoli la chiave per esistere nella pace.»HammarskjöldLa salute e la forza di una comunità dipendono dal sentimento di solidarietà che ogni cittadino nutre verso gli altri cittadini e dalla sua disponibilità, in nome di questa solidarietà, a farsi carico della propria parte dei pesi e delle responsabilità della comunità.D.