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11 Dicembre 2024
Ultima modifica: 11 Dicembre 2024 ore 08:25

Un mese in Palestina contro le ingiustizie

La forza e la nonviolenza della gente palestinese, raccontata da un volontario di Operazione Colomba
Un mese in Palestina contro le ingiustizie
Foto di Archivio Operazione Colomba
Ad At-Tuwani, un paese nel sud della Cisgiordania, ha vissuto al fianco delle persone palestinesi. Nel suo racconto traspaiono le ingiustizie compiute dai coloni e dalle milizie israeliane, ma anche la resilienza dei palestinesi nell'affrontare le difficoltà.
Da ormai 22 anni, Operazione Colomba è presente in Palestina, inizialmente nella Striscia di Gaza, poi in Cisgiordania nel villaggio di At-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron.  La zona in questione fa parte del territorio palestinese, ma si trova sotto il controllo civile e militare israeliano, la c.d. Area C secondo gli Accordi di Oslo. Tutta l’area è costellata di colonie e avamposti israeliani, illegali per il diritto internazionale, che si espandono a macchia d’olio, sottraendo sempre più terra e risorse – in primis risorse idriche, ma anche bestiame, e coltivazioni soprattutto di olivi – agli abitanti palestinesi. Il tutto avviene con la protezione della ingente presenza militare israeliana. L’esercito, dal canto suo, compie frequenti raid nei villaggi palestinesi, eseguendo confische, demolizioni di abitazioni e infrastrutture o arresti arbitrari. I coloni, famiglie e gruppi di estremisti nazionalreligiosi che si sono insediati nella zona, commettono atti di intimidazione, minacce e aggressioni, girano pesantemente armati e aggrediscono gli abitanti palestinesi dei villaggi. Dagli anni 90, gli abitanti palestinesi hanno deciso di resistere con la forza morale della nonviolenza. Proprio qui, l’intervento di Operazione Colomba si rivela di grande aiuto. La presenza fisica di volontari internazionali e di attivisti israeliani, che si interpongono tra palestinesi e coloni violenti nei momenti di tensione, o registrano le violenze con le loro telecamere, a volte basta a garantire protezione. Gli obiettivi di Operazione Colomba in Palestina sono riportare le ingiustizie che accadono e ricordare alle persone che non sono sole, accompagnandole giorno e notte nella loro quotidianità, e, qualora sia possibile, favorire il dialogo tra le due parti. Senza armi, in punta di piedi, questi volontari e volontarie mettono in gioco se stessi per dire “siamo qui con voi”, sostenendo i palestinesi nella loro scelta nonviolenta e aiutandoli a superare le difficoltà.
Oggi abbiamo parlato con Rocco (il nome è di fantasia per motivi di sicurezza), che ha deciso di partire come volontario di Operazione Colomba, che dopo aver trascorso un mese ad At-Tuwani, ci racconta cosa ha vissuto e la forza che ha ammirato nelle persone palestinesi. Rocco ci parla anche di alcuni giovani palestinesi che attraverso riviste o social media tengono il pubblico informato su ciò che accade nelle loro terre.

Quando e come è nata l’idea di partire con Operazione Colomba? E perché proprio in Palestina?

«Un anno fa sono stato ad un evento organizzato da Operazione Colomba, dove c'era un ragazzo di At-Tuwani, un villaggio nel sud della Palestina, che era lì per portare testimonianze, in una sala piena. Un anno fa ero dall'altra parte ad ascoltare ed ho capito l'ingiustizia enorme che vive la gente di Palestina. Sentivo che volevo dare il mio contributo e vedere le persone, toccarle, ascoltare il loro urlo di dolore. Ho scelto la Palestina perché lì c'è un'ingiustizia enorme che va avanti da troppo tempo, e anche se facciamo finta di niente, anche noi – paesi ‘occidentali’ – ne siamo responsabili visto che appoggiamo Israele in modo acritico fin dalla sua nascita. Credo sia importante essere vicini a chi è vittima di ingiustizia non in senso teorico, ma vicini fisicamente, per conoscerli con rispetto e cambiare l’immagine distorta che spesso abbiamo di loro.»

Come hai affrontato la decisione rispetto alla tua carriera e la tua famiglia?

«Riguardo la mia famiglia non è stato facile, mia moglie non era felicissima perché era preoccupata, mentre i miei figli mi sostenevano anche perché sono molto vicini alla causa palestinese. Ora non lavoro più come prima e posso dedicarmi alle mie passioni. Ho lavorato per tanti anni all'ONU, che è un ambiente molto vario e arricchente ma mi mancava il contatto fisico con la realtà. Mi occupavo di questioni globali, ma sentivo il bisogno di esperienze a livello molto più umano: vedere le persone, i visi, vivere e condividere.»

Una famiglia palestinese incontra un blocco dei militari israeliani, Cisgiordania.
Foto di Operazione Colomba
 Come è stato l’impatto al tuo arrivo?

«La prima impressione che ho avuto è stata la sensazione di arrivare in una terra di nessuno tra il confine giordano e quello – teoricamente – palestinese ma di fatto controllato da Israele. Dal lato israeliano c’è la presenza ossessiva della bandiera e una ricchezza di simboli israeliani messi in evidenza. Una delle prime cose che ho vissuto è stato il viaggio in taxi insieme a una famiglia di palestinesi, una coppia con figli e l’anziana madre. Erano felici per aver appena compiuto il pellegrinaggio alla Mecca. Ma a un certo punto ci siamo bloccati in una lunga coda per un checkpoint israeliano. Ho visto in quel momento l’espressione cambiare sul volto del padre: la contentezza che svaniva mentre realizzava di essere tornato alla normalità di casa sua, con  le truppe israeliane che istituiscono posti di blocco arbitrari per controllare i palestinesi in transito e causano quindi congestioni e perdite di tempo, giusto per ricordare chi comanda in quella terra.»

Come era la tua quotidianità?

«Arrivai nel piccolo villaggio di At-Tuwani ­­­­– che si trova nella zona di Masafer Yatta ­­– molto carino ed immerso in colline sassose, ricoperte da ulivi e piante grasse. Essendo estate ci muovevamo la mattina presto per il caldo. Accompagnati da H., palestinese del villaggio che accoglie i volontari di Operazione Colomba, svolgevamo i vari compiti. Avevamo un telefono su cui ci scambiavamo messaggi con tanti attivisti della zona ed era lo strumento per coordinare le nostre azioni e, a seconda dei giorni o del momento, decidevamo le azioni da intraprendere per sostenere chi aveva bisogno di aiuto. Magari ci recavamo dove i coloni pascolavano sulla terra palestinese con le nostre telecamere, o semplicemente accompagnavamo un palestinese in un viaggio verso una zona rischiosa, oppure andavamo in zone dove coloni israeliani compivano azioni di sabotaggio o assalti veri e propri. A volte non c'era molto da fare, a volte invece si continuava a correre da un luogo a un altro. Poi, due o tre volte a settimana, andavamo a dormire da altre famiglie che vivono in case isolate, per farli sentire più tranquilli.»

Hai mai avuto paura?

«Sì, in alcuni momenti. In generale vedere costantemente coloni e militari armati non è rilassante, perché non siamo abituati a vedere così spesso le armi. Per fortuna, siamo quasi sempre insieme a persone palestinesi e loro, essendo abituati a questo, restano così calmi che sono loro a darci tranquillità, mentre dovrebbe essere il contrario. E poi ci sono stati episodi particolari, soprattutto una notte quando fu aggredito un ragazzo di una ONG, durante un assalto di un villaggio ad opera dei coloni israeliani. Purtroppo, i coloni e le forze di occupazione (polizia ed esercito israeliani) sono sempre più infastiditi dalla presenza di cittadini internazionali – testimoni scomodi delle loro violenze – e cercano quindi di allontanarli in vari modi. Arresti temporanei, espulsioni ma anche, talvolta, aggressioni fisiche.»

Hai mai avuto contatti con i militari?

«Un giorno ci fu una demolizione di una casa vicino a At-Tuwani. Sono momenti terribili: i militari e la polizia arrivano all’improvviso, si fermano davanti a una casa e danno 5 minuti di tempo alle persone di uscire e di portare fuori le cose importanti. Poi, in pochissimi minuti, la demoliscono lasciando per strada un’intera famiglia (dieci persone in quel caso). La giustificazione ufficiale è che si tratta di costruzioni abusive, ma ottenere i permessi per edificare è pressoché impossibile per le persone palestinesi, che sono quindi costrette a costruire le loro abitazioni senza autorizzazione. In quell’occasione cercavo costantemente di guardare negli occhi quei militari, ma non ci riuscivo

Cosa cercavi di vedere nei loro occhi?

«Gli dissi che un giorno sentiranno la vergogna di quello che stanno facendo. Cercavo di guardarli negli occhi perché ero arrabbiato, ma loro tenevano lo sguardo basso. Mi sono reso conto che loro non sono interessati a vederci, sono isolati nella loro bolla. Alla fine, questo “noi e loro” dipende solo dalla mancanza di volontà di avvicinarsi. E la realtà dimostra che questa mancanza di volontà è da una parte, quella israeliana.»
I militari israeliani proteggono il territorio durante la demolizione di una casa di una famiglia palestinese, Cisgiordania.
Un uomo palestinese guarda immobile ciò che resta della sua casa, dopo la demolizione ad opera della milizia israeliana, Cisgiordania.


Credi che la rabbia, derivata dalla visione di ingiustizia, sia stata un ostacolo per la tua missione?

«Sono felice di aver fatto questo passo, anche se risulta spesso debilitante. Ci sono momenti in cui senti una rabbia terribile. Rabbia e frustrazione, soprattutto nei giorni in cui mi capitava di sentirmi inutile. Tuttavia una cosa bellissima di queste esperienze è che ci sono sempre momenti per condividere e stemperare i sentimenti. In gruppo ci si aiuta a superare la rabbia e ritrovare l'equilibrio. La rabbia è un lusso che non possiamo permetterci: bisogna star calmi per far fronte a questa ingiustizia. La giusta vicinanza, la chiamano.»

Cosa ti hanno lasciato le storie delle persone che hai incontrato?

Del cibo palestinese servito all'interno di un'abitazione
Foto di Operazione Colomba
«La verità è che sono persone normali: vivono in un piccolo villaggio, in un'area dove la maggior parte della gente vive di pastorizia, di agricoltura, di cose semplici. In loro c’è un grande senso di ospitalità e di comunità, condividono ciò che possono con te e ti senti immerso in questo calore. Nonostante si tratti di persone normali, la situazione eccezionale in cui vivono da decenni li ha dotati di una pazienza, una costanza e una forza incredibili, che gli permettono di far fronte a grandi difficoltà.
Una delle storie che mi ha colpito è quella di questa coppia: Shoug e Zakariyah, lei di 25 anni e lui di 28, che hanno quattro bambini bellissimi. Un anno fa, Zakariyah fu ferito molto gravemente da un colono con un’arma da fuoco, e in seguito gli israeliani hanno demolito la casa dei genitori di Shoug. Lei, che sogna di visitare l’Italia, riusciva a raccontarci tutto questo facendo emergere solo la gratitudine di aver superato le difficoltà, senza rabbia. Ha anche scritto un bell’articolo su tutti questi eventi.
E poi ci sono molti altri giovani con storie da raccontare, come Ameer Horey che è un cantante e pubblica le sue musiche su Spotify, oppure Mohammed, che è molto attivo nella lotta nonviolenta contro l’occupazione e si impegna a descrivere le ingiustizie che accadono nei villaggi sui suoi social

Un uomo palestinese siede su una collina
Foto di Operazione Colomba

Hai conosciuto anche degli Israeliani, però, che hanno preso una strada diversa da quella dell’odio. Cosa mi dici di loro?

«Ci sono persone Israeliane volontarie che fanno quello che facciamo noi due o tre volte a settimana, sono sempre in prima linea diciamo. Li ammiro molto perché vivono in una società che è impregnata di suprematismo e militarismo e, pur essendo un gruppo molto piccolo della popolazione israeliana – ricordiamocelo -  danno un segnale di speranza. Per loro è stato difficile intraprendere questo percorso di conoscenza e comprensione, soprattutto perché fino al 7 Ottobre in Israele non si parlava più di Palestina. Ci vuole molta forza da parte loro, perché facendo questa scelta diventi quasi un traditore per la società.”

Questo ci mostra che non ci sono buoni o cattivi, ma una mentalità sbagliata, che forse si potrebbe sconfiggere attraverso la comprensione dell’altro ed il dialogo. Cosa ne pensi?

«Credo che sia fondamentale. Ma purtroppo è la cosa che gli Israeliani cercano di evitare in tutti i modi. Perché quando si stabilisce un contatto, una relazione, la situazione cambia: riconosci che c'è un altro, che siete in due e ci sono più parti da rispettare. Il passaggio che è necessario fare è stabilire una relazione tra palestinesi e israeliani, tra chi abitava lì e chi è arrivato lì occupando la terra scacciando con la forza e la violenza chi c’era. Sarà un percorso lungo, lunghissimo, che – secondo me - dovrà necessariamente passare per una fase di isolamento internazionale di Israele. Solo questo potrà spingere la società israeliana a riflettere seriamente su quali basi vuole continuare a esistere: uno stato che si pone sopra agli altri e basa la propria sicurezza – e la propria identità - sulla violenza e sulla sopraffazione oppure uno stato che vede nella giustizia e nelle relazioni paritarie con gli altri popoli la chiave per esistere nella pace.»

La salute e la forza di una comunità dipendono dal sentimento di solidarietà che ogni cittadino nutre verso gli altri cittadini e dalla sua disponibilità, in nome di questa solidarietà, a farsi carico della propria parte dei pesi e delle responsabilità della comunità.
D.Hammarskjöld