Topic:
10 Ottobre 2023
Ultima modifica: 11 Ottobre 2023 ore 16:55

La guerra si fa tremenda. Fuggire è impossibile.

Israele-Palestina: le ragioni di un conflitto. A a grave rischio la soluzione di "due Stati".
La guerra si fa tremenda. Fuggire è impossibile.
Foto di Haitham Imad
Dopo i sanguinosi attacchi da Gaza degli scorsi giorni, Israele ha dichiarato una "guerra aperta" contro il popolo palestinese. Con più di 1.500 morti e migliaia di feriti, la situazione umanitaria è critica. Continuano i lanci di razzi e i raid armati.
Ci troviamo davanti a uno scenario inimmaginabile qualche giorno fa, ma diventato estremamente concreto in pochissimo tempo. Sabato 7 ottobre un’offensiva via terra, aria e mare è partita dalla Striscia di Gaza contro Israele.

Mai Hamas aveva scatenato un attacco di tale portata. Sono molte le domande che nascono: perché? Come è possibile che una delle Intelligence più potenti al mondo non si fosse accorta di nulla? Come ha potuto Hamas spingersi a tanto senza preoccuparsi delle conseguenze? Certo è una terribile debacle. Ma soprattutto è una tremenda tragedia in cui a farne le spese, come in ogni conflitto, sono i civili, e quelli più fragili.

Le conseguenze dell'escalation del conflitto si fanno  sentire anche a livello internazionale. Nelle giornate di sabato e domenica sono state rafforzate le misure di sicurezza intorno ai siti ebraici in Francia, Germania e Regno Unito. Si tratta di una delle prime conseguenze dell'attacco - senza precedenti per dimensioni e intensità - di Hamas contro Israele.

Cos'è successo: l'Offensiva di Hamas ad Israele

Per la prima volta i gruppi armati che controllano Gaza dal 2006 hanno avviato anche una vera e propria incursione di terra, anche utilizzando deltaplani per atterrare in territorio israeliano. Le immagini dei miliziani palestinesi che vagano liberi per le strade di Israele sono una dimostrazione di una fragilità inaspettata dello Stato ebraico. Le incursioni nel sud di Israele sono state precedute da un disturbo di massa dei sistemi di comunicazione e sorveglianza, che ha consentito ai miliziani di entrare nel Paese praticamente inosservati. E’ ovvio che ci sia stato un grave buco nei Servizi Segreti Israeliani, in una delle zone più sorvegliate al mondo.

Un attacco premeditato

Non è del tutto da escludere l’idea che Hamas abbia colto l’occasione, sfruttando un attimo di particolare debolezza e divisione all’interno dello Stato ebraico per assestare un colpo micidiale alla sua sicurezza e alla percezione della sua sicurezza. Non a caso, poco dopo l’inizio dell’offensiva, il movimento islamico ha invitato gli arabi di Israele a unirsi alla lotta e a sollevarsi contro lo Stato ebraico. Questo risponde in parte alle domande sull’entità dell’attacco, troppo meticoloso e articolato per essere stato estemporaneo. A Gaza, infatti, potrebbero aver maturato l’idea e organizzato l’offensiva per mesi, magari avvalendosi di aiuti esterni, per poi agire approfittando delle divisioni interne di Israele.

Le Parti Coinvolte

Il conflitto tra Israele e Palestina coinvolge diverse parti, ognuna con le proprie aspirazioni e interessi. Da un lato, c'è lo Stato di Israele, che rappresenta gli interessi del popolo ebraico e si impegna a preservare la sicurezza e l'autonomia del proprio territorio. Dall'altro lato, c'è il popolo palestinese, che cerca di ottenere l'autodeterminazione e un proprio Stato indipendente.

Oltre a Israele e Palestina, il conflitto ha attirato l'attenzione e il coinvolgimento di numerosi attori internazionali. Alcuni stati, come gli Stati Uniti, sostengono apertamente Israele, mentre altri, come l'Iran, sostengono la causa palestinese. Questo coinvolgimento straniero ha contribuito ad alimentare le tensioni e a complicare la ricerca di una soluzione pacifica.

Le Radici del Conflitto

Le ragioni del conflitto tra Israele e Palestina sono molteplici e complesse. Al centro del problema ci sono questioni territoriali e il desiderio di entrambe le parti di affermare la propria identità nazionale.

Il conflitto ha le sue radici nel XX secolo, con eventi cruciali che hanno segnato la storia di entrambe le nazioni. Una delle tappe chiave è stata la partizione della Palestina ad opera delle Nazioni Unite nel 1947, che ha stabilito la creazione di uno Stato ebraico e uno Stato arabo. Questa decisione ha portato ad una serie di conflitti e tensioni tra le due comunità.

L'indipendenza di Israele nel 1948 ha innescato un esodo di massa dei palestinesi, che hanno abbandonato le loro case e sono diventati rifugiati nei paesi limitrofi. Questo evento, noto come "Naqba" (la catastrofe), ha segnato l'inizio delle tensioni.

Il 2023 segna i 30 anni degli accordi di Oslo, risalenti al settembre 1993. Gli accordi tra Arafat e Rabin promuovevano la creazione di due Stati, e ancora oggi questa soluzione rappresenta la posizione ufficiale praticamente dell’intera comunità internazionale. La crisi di oggi però è certamente un colpo mortale e definitivo per quello che resta di Oslo.

La soluzione in cui nessuno crede per davvero: due Stati sullo stesso territorio

Per decenni la soluzione dei due Stati è stata considerata l'unica in grado di porre fine al conflitto: dividere il territorio in due aree stabilendo i confini sulla cosiddetta 'green line' (l'armistizio precedente al 1967, dato che dopo la guerra dei sei giorni di quell'anno, Israele occupò un territorio più vasto rispetto a quello accordato dall'Onu). Gerusalemme dovrebbe essere condivisa ed essere la capitale di entrambi gli stati. Oggi per molti, è realisticamente inattuabile de facto: Israele negli ultimi cinquant'anni ha costruito centinaia di insediamenti nei Territori Occupati e insiste sul fatto che queste zone dovrebbero far parte dello stato israeliano. Questo implicherebbe la definizione di nuovi confini, di uno stato palestinese a macchia di leopardo fatto da tante piccole enclavi senza soluzione di continuità.

Gerusalemme è un altro degli ostacoli che impediscono la messa in atto di questa soluzione. Per Israele sarebbe impossibile patteggiare un accordo che non preveda tutta la città come parte integrante del suo territorio. Allo stesso modo, i palestinesi non sarebbero disposti a cedere le zone in cui si trovano i loro luoghi sacri, che sono per la maggior parte a Gerusalemme Est. Molti palestinesi e israeliani difendono la "soluzione a uno stato", concentrandosi sulla questione dei diritti civili dei palestinesi, che in uno stato con due nazionalità presto diventerebbero la maggioranza. Questa soluzione, però, sul lungo periodo comporterebbe la fine di uno stato a maggioranza ebraica, ragione per cui gran parte degli israeliani è contraria.
 

La politica Interna di Israele

Il fatto che l'escalation della violenza di ottobre 2023 avvenga in un momento di complicatissima situazione interna dello Stato ebraico non sembra casuale. «Il paese, infatti, è ancora in fermento per la controversa riforma della giustizia voluta dal premier Benjamin Netanyahu, che cerca di ridimensionare i poteri della Corte Suprema in favore dell’esecutivo e della Knesset, il parlamento monocamerale israeliano- dichiara ancora L’INSPI.

Haaretz, il maggiore quotidiano progressista israeliano l’8 ottobre in un editoriale scrive: «Il disastro che si è abbattuto su Israele è chiaramente responsabilità di Benjamin Netanyahu». Per il quotidiano la causa principale dell’attacco di Hamas è il primo ministro israeliano e, nello specifico, il «governo di annessione ed esproprio» che ha istituito.

 

Cos'è successo negli ultimi anni.

Negli ultimi anni, il conflitto tra Israele e Palestina è stato caratterizzato da episodi di violenza e tensione. Nel maggio 2021, ad esempio, si è verificata una serie di scontri tra le forze di sicurezza israeliane e i gruppi armati palestinesi nella Striscia di Gaza.

Ad agosto 2022 e a maggio 2023 si erano verificate crisi violente, ma temporalmente circoscritte e caratterizzate da passaggi ricorrenti: evento scatenante gli scontri sulla spianata delle moschee a Gerusalemme, o il lancio di razzi da Gaza (quasi sempre respinti dal sistema di protezione Iron Dome), poi i raid israeliani nella Striscia, il cessate il fuoco raggiunto con la mediazione dell’Egitto.

L’instabilità rischia di allargarsi a livello regionale e internazionale. «Quello che alcuni osservatori chiamano già l’11 settembre di Israele si inserisce come un cuneo nel percorso di normalizzazione tra Israele e i paesi arabi della regione, iniziato con gli Accordi di Abramo nel 2020. Sarebbe un errore, tuttavia, legare l’accaduto a ragioni meramente geopolitiche e legate al contesto internazionale. Le radici della crisi, probabilmente la più grave di sempre per Israele, sono da rintracciare nelle dinamiche locali, di un conflitto incancrenito e, allo stesso tempo, sempre più negletto dalle agende politiche internazionali» avverte L’INSPI (Istituto Politiche Internazionali).

La quarta guerra di Gaza, maggio 2021

Scriveva Amira Hass su Haaretz: «Israele dimostra ancora una volta che la sua capacità di terrorizzare, uccidere e distruggere è molto più grande di quella dei palestinesi. Dall’altra parte Hamas costruisce eserciti e bombe, ma non rifugi per civili. Hamas rispondendo alla provocazione israeliana a Gerusalemme non ha certo tenuto conto delle conseguenze che la popolazione di Gaza avrebbe pagato».
La “quarta guerra di Gaza”, quella del maggio 2021, per i civili palestinesi è solo l’ennesimo e cruento atto di 54 anni di occupazione militare. Per comprendere l’oggi è necessario mettere insieme i tasselli di un mosaico che ha radici lontane, e forse sono troppi per incastrarli tutti.
 
1948. Dopo che l'Onu stabilisce la partizione della Palestina in 2 Stati, 4 Paesi arabi rifiutano il patto e attaccano le forze ebraiche, che nonostante l'inferiorità numerica e di armi vincono la loro "guerra d'indipendenza" e costituiscono lo Stato di Israele su circa metà del territorio, quel 56% attribuito a Israele dalla risoluzione 181 delle Nazioni Unite, del 1947, che divide la Palestina mandataria in due Stati: uno ebraico, comprendente il 56% del territorio, l'altro arabo, sulla parte restante, mentre Gerusalemme sarebbe stata corpus separatum sotto l'amministrazione ONU.
La Cisgiordania (West Bank) finisce sotto mandato giordano e la Striscia di Gaza sotto quello egiziano.

Storie da Betlemme, campo rifugiati di Aida, Territori Occupati Palestinesi

Jaffa evoca le arance, alle nostre orecchie è un famoso brand israeliano.
Per Abu Saleh era la città affollata della sua infanzia. Quella dei suk dall’aria satura di profumi: caffè speziato, salsedine e agrumi. Viva e colorata, frequentata da commercianti e intellettuali. Il vecchio Abu Saleh, che nel 1948, quando fu costretto a lasciare la sua casa nell’aranceto, aveva 13 anni, la ricorda così. Nel ricordo ogni volta i particolari si colorano di connotazioni diverse, fino a diventare tanti affreschi a colori pastello di un passato illuso e illusorio. Questo ci racconta il nipote Marwan, anche lui profugo di una terra che non ha mai conosciuto. «Noi giovani siamo profughi senza esodo- dice con amarezza. -Tre generazioni di Palestinesi sono cresciute nei campi, all’ombra di case terre e famiglie invisibili». Radici mai ancorate, luoghi immaginari ricostruiti attraverso le storie dei nonni.
Jaffa fu occupata nel maggio 1948 e in gran parte demolita. La maggioranza della popolazione, 50.000 persone, fu costretta a scappare, forzata dall’esercito israeliano. Molti verso la Striscia di Gaza.
Gerusalemme
Foto di Archivio Operazione Colomba


Quella che per Israele è la nascita dello Stato, per i palestinesi è la “Naqba”, la catastrofe. Con un’opera di ricostruzione minuziosa lo studioso Palestinese Walid Khalidi nel volume All that remain, the Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948 (frutto di 7 anni di ricerche) documenta la distruzione o lo sfollamento di più di 400 villaggi palestinesi nel 1948, ad opera del neonato Israele.
Nei campi profughi palestinesi la memoria orale della Naqba resiste, anche oltre le persone.
Gli anziani conservano gelosamente le chiavi delle case degli avi, in cui, se sono sopravvissute alle bombe e al tempo, abitano famiglie ebree. Prima della costruzione del “muro di separazione” da parte del governo israeliano qualche famiglia era riuscita ad andare nei villaggi d’origine, a guardare da lontano le vecchie case. A volte qualcuno ha bussato alla porta, in un misto di rimpianto paura e dolore, ed è capitato anche che i nuovi abitanti li accogliessero con gentilezza.

Nel 1948 viene fondata l’UNRWA, Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro dei rifugiati palestinesi. È un'agenzia di aiuto, sviluppo, istruzione, assistenza sanitaria, servizi sociali e sostegni di emergenza a oltre 5 milioni di rifugiati palestinesi che vivono in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza. È l'unica agenzia Onu dedicata ad aiutare esclusivamente i rifugiati provenienti da una regione o conflitto specifico. Per tutti gli altri c’è l’UNHCR. Fino a poco tempo fa i palestinesi erano il popolo con il più altro numero di rifugiati al mondo, primato condiviso oggi con i siriani.

L’UNRWA fornisce strutture riconosciute in 59 campi profughi in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Dal 1950 al posto delle tende inizia a costruire le prime strutture in muratura: tendenzialmente una stanza per ogni famiglia e una piccola cucina. Il bagno è comune almeno a 10 famiglie, le fogne sono a cielo aperto, rigagnoli maleodoranti in cui a volte i bambini giocano. Nei primi anni le famiglie arrivavano tutte da villaggi diversi e non si conoscono. Era necessario ricostruire un tessuto sociale dal nulla, nel tentativo di elaborare un trauma individuale e collettivo. Tutte le relazioni erano distrutte. Il campo era il non-luogo della perdita, della vicinanza forzata con estranei, della mancanza di stabilità: anche persone che precedentemente avevano una vita anche agiata dovevano ora sopravvivere con gli aiuta dell’UNRWA, patate, legumi, farina.

I bambini e ragazzi più fortunati riescono a frequentare le scuole dell’Unrwa. È immaginabile quanto sia importante la scuola nel campo, è forse l’unica speranza di affrancarsi e l’unico modo di restituire un briciolo di dignità e fiducia in se stessi.
Oggi i campi non sono molto diversi da allora.
 
1967. È controverso se ad iniziare la guerra dei 6 giorni sia stato Israele o l’Egitto. Sta di fatto che l’esercito israeliano guidato da un generale con la benda all'occhio, Moshe Dayan, sconfigge le truppe di tutti i vicini paesi arabi, riunifica Gerusalemme conquistando la Città Vecchia con il Muro del Pianto ed entra in possesso anche della Cisgiordania, rimasta parte della Giordania fra il 1948 e il '67, e della striscia di Gaza, rimasta all'Egitto nel medesimo periodo, oltre che delle alture del Golan in territorio siriano.
Lo storico israeliano Ahron Bregman sostiene che «quella della guerra dei 6 giorni sia una vittoria maledetta, in quanto ha dato il via a un’occupazione intollerabile ed è nell’interesse stesso di Israele porvi fine».

Storie da Nablus, Territori Occupati Palestinesi

Sembra che Abramo, subito dopo aver ricevuto da Dio la promessa «Io farò di te una grande nazione», avesse condotto la sua tribù ad accamparsi nel boschetto di querce che si trova tra il monte Gerizim e il monte Ebal, un’altra collina un po’ più a nord. Da quell’accampamento nacque la città biblica di Shchem, oggi Nablus, la Napoli palestinese, patria del famoso sapone all’olio di oliva, dove vivono 300mila palestinesi.
 
Amjad è un “rifugiato per nascita”. La famiglia è originaria di Haifa, lui è nato nel campo di Askar, alle porte di Nablus. Ha studiato da medico in Italia ed ha vinto il concorso all’ospedale Makassed di Gerusalemme est. Ma non può andarci a lavorare perché Israele non gli dà il permesso, gli viene costantemente rifiutato per “motivi di sicurezza”. La moglie, Suad, è palestinese ma con uno status diverso rispetto al suo, ha l’Identity card di Gerusalemme, così nei momenti di chiusure rigide dei Territori Occupati loro dovrebbero stare uno a Nablus e l’altra Gerusalemme. Così hanno deciso di stare ambedue a Nablus con i 3 figli, dato che lui a Gerusalemme non può entrare.

Quella dello status dei palestinesi è una questione davvero complicata. Gli abitanti della Cisgiordania sono palestinesi con il passaporto giordano, quelli della Striscia di Gaza hanno il passaporto dell’Autorità Nazionale Palestinese, i palestinesi cittadini di Gerusalemme (est) hanno anche essi il passaporto giordano ma una speciale carta di identità della città di Gerusalemme che permette loro di starci, mentre i discendenti da quella minoranza (meno di 200mila) di palestinesi rimasti sulla loro terra dopo la creazione dello Stato ebraico, nel 1948 (circa il 20% della popolazione di Israele) sono arabi con passaporto israeliano. Questi ultimi vivono all’interno di Israele in condizioni fortemente discriminate, in una sorta di apartheid.

Amjad lavora per il Medical Relief a Nablus. «I principali ospedali della Palestina sono a Gerusalemme Est – racconta – e solo lì si possono avere dei servizi specialistici che non si trovano in nessun altro luogo della Palestina. Ma per più di quattro milioni di palestinesi di Cisgiordania e Gaza, Gerusalemme è irraggiungibile. La Striscia è chiusa, ottenere un permesso per valicare il muro è sempre più difficile, poi ci sono i checkpoint… il mondo non comprende cosa voglia dire vivere così. Senza poter viaggiare sulla propria terra. Tre anni fa è l’ultima volta che ho visto mia madre, al funerale di mio padre. Abita a 40 chilometri da qui. E per tornare a casa ho impiegato 2 giorni. 48 ore per fare 40 km per noi è la normalità. Che abbiamo fatto noi per meritare questo?».
Qalandia passaggio
Foto di Archivio Operazione Colomba


Fare la fila a un checkpoint è un modo semplice e immediato per capire cosa voglia dire vivere sotto occupazione. Al checkpoint ti abbronzi, discuti, soffri al sole, fai amicizia. Partorisci perfino, e a volte qualcuno muore anche. In fin dei conti è il luogo dove si trascorre la maggior parte del tempo. La sofferenza unisce, conversare aiuta a sopportare l’attesa e si imparano un sacco di cose. Spesso si ha paura. Ho ancora un ricordo vivido e violento del checkpoint di Hawara, prima di Nablus, e del fucile di un colono puntato contro la gente. Il silenzio innaturale e il terrore che paralizza ogni arto.

Tutti i checkpoint sono diversi. Alcuni si possono valicare solo a piedi, altri in macchina. Di notte sono tendenzialmente chiusi. Ci sono poi i “checkpoint volanti”, dei posti di blocco mobili che funzionano solo qualche ora o qualche giorno. È difficile dire quanti siano, tra fissi e mobili se ne stimano circa 500, a seconda dei momenti. Le regole per il passaggio cambiano di giorno in giorno, e a volte i soldati vanno “a sentimento”. Un rapporto completo sulle restrizioni alla libertà di movimento dei palestinesi si può trovare sul sito di Btselem, il Centro di Informazione Israeliano sulle violazioni dei diritti umani nei Territori Occupati (www.btselem.org).
 
2021, maggio. Sheikh Jarrah è uno dei quartieri di Gerusalemme est. È arroccato su una delle venti colline della città, e ci sono i consolati di quasi tutti i Paesi stranieri. Il quartiere è al centro di una disputa nelle aule dei tribunali israeliani da decenni. Nella zona vivono 250mila palestinesi. La disputa nasce dagli sgomberi di alcune famiglie arabe residenti su terreni di cui dei cittadini ebrei rivendicano la proprietà, asserendo che i terreni e le case vennero perduti durante l'aggressione giordana a Israele del 1948. Le famiglie palestinesi avevano ricevuto le case negli anni '50 dalle autorità giordane che all'epoca controllavano Gerusalemme est, fornendo apposita documentazione. La controversia legale ha portato alle ennesime violenze tra israeliani e palestinesi e Gerusalemme continua a restare uno dei punti chiave del conflitto fra i due Paesi. 
La Città Santa si infiamma, gli scontri arrivano alla Spianata delle Moschee.
Da Gaza Hamas lancia razzi - oltre mille di cui 850 intercettati dal sistema di difesa Iron Dome e 200 esplosi nella Striscia – e Israele risponde con decine di attacchi aerei. 
bambini palestinesi
Foto di Archivio Operazione Colomba

Storie dalla Striscia di Gaza, Territori Palestinesi

«Quando le bombe toccano terra, quando sono sufficientemente lontane da non colpirti, senti una sorta di attrazione magnetica verso il pavimento. È una cosa inspiegabile, forse per un principio fisico».
Younis è un cooperante, lavora per una piccola Ong della Striscia che si occupa di educazione, e in passato ha vissuto in Italia. Ogni sera dell’operazione “Guardiano delle Mura” (così l’esercito israeliano ha chiamato i bombardamenti) cerca di fare un collegamento zoom video con un gruppo di amici, da casa sua a Gaza City. A volte partecipa anche qualche sua collega.
Sentire le detonazioni delle bombe “in diretta” ascoltando i racconti è una sensazione forte, non descrivibile. C’è il monitor e la consapevolezza di trovarsi a km di distanza eppure nella mia casa tranquilla e silenziosa alcune notti mi sono svegliata di soprassalto per qualche rumore.

I racconti riportano particolari impensabili, a tratti agghiaccianti.
«La notte ci ammucchiamo tutti in una stanza, anche 15 persone. Alcune famiglie si scambiano i figli, per avere la speranza che almeno qualcuno sopravviva. Io non ce l’ho fatta, li ho voluti tutti e tre con me. Abbiamo preparato gli zaini vicino alla porta, per scappare in velocità, ma mi sono chiesta più volte dove potevamo scappare, a Gaza non esiste un luogo sicuro. Potrebbero bombardare dappertutto. Quando è saltata la luce mia figlia di 4 anni mi ha detto che era meglio così, almeno al buio non ci avrebbero visto».
 
«La situazione qui sta andando sempre peggio. L’esercito israeliano ha dichiarato che attaccherà Gaza in modo più intenso e più forte, ma quello che hanno fatto fino ad ora che cosa era? Giocare? Scherzare? Fino a questo momento ci sono 65 morti fra i quali 16 bambini e 5 donne e oltre 365 feriti. Questi morti e feriti non sono numeri, sono vite, sono persone e in due casi sono famiglie intere morte sotto le macerie delle loro case. Ieri alcuni bambini tornavano dal mercato dopo aver comprato l’abito nuovo per l’Eid, la festa di fine Ramadan e prima di arrivare a casa sono stati colpiti da una bomba. Sono morti con l’abito nuovo in mano, l’abito della festa è stato usato per seppellirli. Mi piange il cuore. Li immagino con i vestiti nuovi giocare nel loro quartiere, invece non lo faranno e non ci saranno più con noi o meglio, non ci saranno più con chi rimarrà vivo di noi. Penso anche che a nessun bambino nella striscia di Gaza sarà consentito di essere felice. Mia nipote ha espresso il desiderio che sia sempre giorno, che la notte non arrivi mai. Di giorno si bombarda poco. E noi siamo qui, impotenti. Nel terrore costante. Io non sono con Hamas, che mi spia e mi minaccia per il mio lavoro educativo. Ma a Israele questo che importa? Al mondo che importa?».
«Al mondo che importa di noi?» è la domanda più frequente che mi sono sentita fare dai palestinesi.

«Rami non aveva niente a che fare con Hamas, non si interessava neppure di politica. Voleva solo coltivare il suo pezzetto di terra a Beit Hanun, vivere con sua moglie e i figli – urla la vicina di casa di Younis, che ha appena saputo della morte del fratello con tutta la famiglia».
L’orizzonte di Gaza è polvere e sangue: un altro tramonto su questo mare, il Mediterraneo, lo stesso mare di Israele, lo stesso nostro.
Un vecchio cartello tutto rotto troneggia sulla strada principale che attraversa la Striscia. “Welcome to Gaza”.