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12 Agosto 2024
Ultima modifica: 12 Agosto 2024 ore 12:01

Istat: i giovani vogliono vivere in coppia ed avere figli

Lo rivela una ricerca sugli 11-19enni.
Istat: i giovani vogliono vivere in coppia ed avere figli
Foto di Michelle Raponi da Pixabay
Mentre di anno in anno l'Istat testimonia la natalità in picchiata e l'inverno demografico, una recente ricerca dello stesso Istituto rileva che i giovani vorrebbero sposarsi ed avere due figli. Come colmare questo gap tra i sogni e la realtà? Ne parliamo con Gigi De Palo, presidente della Fondazione per la Natalità
A fronte di un continuo calo dei matrimoni; a fronte di un tasso di natalità che non cresce; a fronte dei 35enni ancora in casa con i genitori, i desideri dei ragazzi raccontano di una realtà differente.

Il desiderio di vivere in coppia

Il 74,5% dei giovanissimi pensa che da grande vivrà in coppia, a prescindere da un eventuale matrimonio. È quanto emerge da un recente report dell'Istat sugli 11-19enni.
Solo il 5,1% - vi si legge - immagina di vivere da solo, mentre gli indecisi superano di poco il 20%. La quota di chi si vede single è leggermente più alta per le ragazze rispetto ai ragazzi. Differenze importanti si leggono invece tra stranieri e italiani. Il 75,4% degli italiani vede il proprio futuro in coppia, per gli stranieri la stessa percentuale scende al 65,8%; per questi ultimi risulta invece più elevata la quota di coloro che non si vede in coppia da grande: 7,6% contro 4,9%.
E sebbene l'età del primo matrimonio nel 2022 in Italia fosse di 34,6 anni per gli uomini e di 32,5 anni per le donne, la larga maggioranza (76,9%) dei giovanissimi vorrebbe sposarsi entro i 30 anni e, tra questi, quasi il 21% prima dei 26 anni. Per le ragazze l’incidenza di chi si vuole sposare entro i 30 anni è più alta che per i ragazzi (80,7% e 73,4%). Il 23,2% delle giovani desidera sposarsi prima dei 26 anni.
Per gli stranieri la percentuale di coloro che pensano di sposarsi entro i 30 anni è più elevata che per gli italiani: 81,7% contro 76,5%.

La maggior parte dei ragazzi vuole (vorrebbe) due figli

Anche sul fronte della fecondità ci sono delle sorprese: al crescere dell’età l’incidenza di coloro che vuole avere figli aumenta e passa dal 63,3% nella classe 11-13 anni al 73,1% nella classe 17-19, assottigliando così la quota di indecisi. A dire il vero anche la percentuale di chi non vuole figli cresce lievemente con l’età, passando dall’8,4%, per la classe di età 11-16 anni al 9,1% tra i 17-19enni.
Il 61,5% dei giovanissimi che pensa di avere figli ne vorrebbe due, l’8,8% un solo figlio, il 18,2% tre o più, mentre il restante 11,5% pur asserendo di volerne non indica quanti.
Così come per il matrimonio, anche per i figli il calendario che i giovanissimi hanno in mente è anticipato rispetto a quello attuale delle nascite. In Italia, nel 2022 l’età media delle madri al primo figlio è di 31,6 anni. Il 65% dei giovanissimi pensa di avere un figlio entro i 30 anni (il 14,6% prima dei 26 anni) e solo il 2,6% colloca la nascita del primo figlio dopo i 35 anni. Per le ragazze la quota di coloro che pensa di avere il primo figlio entro i 30 anni raggiunge il 71,6%.

La ripresa della natalità è possibile se...

«Altro aspetto interessante - sottolinea il rapporto - riguarda la distribuzione per numero di figli avuti. Tra le donne della coorte 1973 il 42% ha avuto un solo figlio, il 28% due e solo l’8% tre o più figli. Le intenzioni espresse dai giovanissimi, invece, sono massimamente concentrate sull’ideale dimensione dei due figli. Il che conferma quanto già emerso da precedenti indagini, ossia che nel Paese il desiderio di maternità è pressoché stabile nel tempo. Le risposte fornite dalle nuove generazioni rappresentano quindi la conferma che una ripresa della natalità nel nostro Paese è possibile, a patto naturalmente che i desideri espressi possano tradursi in realtà».
E affinché possano tradursi in realtà serve un accurato mix di azioni politiche di sostegno alla genitorialità e di un rinnovato clima culturale che riconosca il valore sociale delle famiglia con figli.

E affinché possano tradursi in realtà serve un accurato mix di azioni politiche di sostegno alla genitorialità e di un rinnovato clima culturale che riconosca il valore sociale delle famiglie con figli.
Ne parliamo con Gigi De Palo, romano, classe 1976, 5 figli, che ha fatto nascere ed è presidente della Fondazione della Natalità. La Fondazione si occupa di organizzare ogni anno gli “Stati generali della natalità”, un evento nato per provare a fronteggiare il problema della denatalità in Italia, giunto quest’anno alla sua quarta edizione.
 
 

Parliamo di natalità, perché ti sta tanto a cuore questo tema?

«Banalmente: perché non sta a cuore a nessuno. È nato come una cosa spontanea parlando di famiglia e vedendo che in certi contesti la famiglia diventava un tema divisivo. C’erano manifestazioni che la tiravano da una parte e dall’altra. Mi sono chiesto che cosa si poteva fare e ho visto che si poteva approfondire il tema di natalità che è un concetto neutro, e che se dai una risposta al tema natalità dai una risposta alla famiglia. È nato insieme ad altre mamme e papà come me. Perché da anni al di la di commentare i dati Istat nessuno se ne faceva carico.»
 

In maggio si sono svolti gli annuali Stati Generali della Natalità. Che cosa è emerso?

«È stata “buttata in caciara” e questo ha adombrato le nostre proposte [durante l’intervento del ministro Eugenia Roccella un gruppo di attiviste ha manifestato, e il ministro ha lasciato il palco – n.d.r.].»
 

Una risposta da cui traspare una certa delusione

«Chi ha manifestato l’ha fatto su tematiche che non erano le nostre. E noi stiamo perdendo un altro anno. È andata alla grande per la visibilità, ma noi non vogliamo visibilità ma risposte per i nostri figli. Emerge un problema relativo alla partecipazione. La politica dovrebbe esaltare la partecipazione, soprattutto una partecipazione propositiva come la nostra. Vogliamo ministri sempre a servizio dei cittadini, per dare delle risposte perché per questo sono stati votati. Purtroppo in Italia c’è un clima di polarizzazione che blocca ogni proposta: sembra che o fai politica o manifesti contro. C’è anche chi come noi fa proposte e chiede risposte»
 

Quindi sei amareggiato?

«Amareggiato e preoccupato. Le istituzioni non possono abbandonare un evento dove 1800 ragazzi si sono dati da fare. I cittadini non servono solo per andare a votare, ma sono il senso per cui le istituzioni stano lì. La grande domanda è: Serve ancora partecipare?»
 

Tornando alla natalità, un recente comunicato Istat mette in evidenza lo scollamento, nel nostro Paese, tra i sogni di genitorialità dei giovanissimi, e la realtà della denatalità. Come si può colmare questo gap?

«Noi battiamo il ferro sulla parola libertà. Cioè, non si tratta di convincere a fare figli, è sbagliatissimo farlo, una scelta perdente, una intromissione nella vita privata.
Oggi in Italia chi non vuole figli è libero di non farli ma non è libero chi vorrebbe averli. Perché? Perché è la prima causa di povertà, perché non c’è una fiscalità familiare, perché il lavoro fisso arriva tardi, perché le donne spesso devono scegliere tra lavoro e famiglia… Dobbiamo creare le condizioni perché si possano avere figli.»
 

Come?

«Facendo politiche serie, togliendo la complessità economica e sociale all’arrivo di un figlio, non facendolo essere una delle prime cause di povertà. E allora in Italia avrai più figli che in Francia.
Non si tratta di far venire il desiderio, ma mettere nelle condizioni perché questo desiderio si possa concretizzare.
È chiaro che se l’autonomia ce l’hai a 38 anni di figli ne fai solo 1. Se la crei a 26 anni…»
 

C’è chi dice che servono più soldi e chi che i soldi non contano, ma bisogna cambiare cultura. Chi ha ragione?

«Le due cose sono collegate: fino a quando mettere al mondo figli sarà prima causa di povertà un giovane avrà timore.
Non è che i solidi risolvono la cosa, ma cambiano la mentalità, capisci che c’è uno Stato che ti dice che ha a cuore il tuo desiderio di genitorialità.
A domanda complessa c’è una risposta complessa. L’economia e la cultura devono ragionare insieme. Chi dice che una questione culturale in realtà dice che non si può far niente perché una cultura la si cambia in 25 anni, e noi il problema lo dobbiamo risolvere adesso.»
 

Su che cosa lavorerete nei prossimi anni?

«Continueremo a rompere le scatole. Sono 30 anni che conosciamo il problema, e sono solo 4-5 anni che prendiamo il toro per le corna. L’abbiamo trasformato da un discorso da salotto, da demografi, in una questione popolare.
L’obiettivo è quello di creare un’agenzia che riesca ad andare oltre i governi, che permetta una primavera demografica
Ci deve essere qualcosa di indipendente dalla breve durata dei governi. 
Il governo pensa alla prossima elezione, noi dobbiamo cambiare la storia, c’è una guerra enorme da vincere.
La natalità è una delle “strutture” – per usare un termine caro a Giovanni Paolo II – che genera problemi. È la nuova questione sociale che si porta appresso tutto il resto. Dal fatto che meno siamo e meno conteremo in Europa, a problematiche ambientali come i fiumi che si ingrossano nelle zone spopolate dove non si fa manutenzione dei bacini.
Dobbiamo lavorare oggi per avere 500.000 nuovi nati entro il 2035. Gli scenari sono molto gravi ma in realtà non sappiamo nemmeno che cosa accadrà perché è la prima volta che un crollo delle nascite di queste proporzioni accade in un paese nel mondo. Vogliamo anticipare il futuro o aspettiamo che accada?»