Ci sei riuscito?
«Per farlo ho sviluppato in me falsità, bugie, prepotenza, arroganza, presunzione che mi hanno portato a vivere una vita di solitudine».Ti sei sposato però
«Ho scelto di sposarmi, sono nati due figli, ma in realtà era lo strumento che mi ero dato per colmare il vuoto affettivo che vivevo. I reati li avevo cominciati da giovane - e non ero stato preso - con il matrimonio mi sistemai ma il mio disagio continuava».Lavoravi?
«Per il fatto di venire da una famiglia modesta, uno dei miei demoni è stato il denaro, ho cercato riscatto nel lavoro, ho avuto un certo successo come commerciante. Avevo un bar aperto 24 ore che rendeva molto».Famiglia, figli, soldi. Pare una vita perfetta. Cosa non ha funzionato?
«Quando i miei figli sono diventati grandi e hanno giustamente cominciato a fare la loro vita. Questo mi ha schiantato, non ce li avevo più. Con l’adolescenza, non c’era più quella scena in cui io stavo con loro sul divano, uno a destra e uno a sinistra, ed io che li tenevo stretti. Non c'erano più loro a riempire il mio vuoto»E poi?
«Poi è arrivata la separazione e per me è stato facile riprendere la vita di strada, l'uso delle sostanze, e cominciai a commerciare con l’Albania armi ed auto di grossa cilindrata».A che cosa pensavi in quel periodo?
«Cercavo delle giustificazioni. In realtà sapevo quello che stavo facendo, che non era lecito, che era sbagliato. Ho allontanato le amicizie positive. Avevo dei segreti, ho sempre vissuto con i sensi di colpa. Più tardi, leggendo don Oreste Benzi, ho scoperto che il senso di colpa è demoniaco, ti piega le gambe».Come hai fatto ad uscirne?
«Un giorno ero lì per una consegna… c'era un lenzuolo bianco che copriva un corpo, era un giovane tabaccaio a cui avevano sparato. Non saprò mai se era stato ucciso con le mie armi, ma “Grazie Signore per questa spina che mi lasci nel fianco”. Non feci la consegna, tornai indietro, mi fermai fuori da una chiesa ma non entrai per la vergogna, ma pregai lo stesso : “Ti prego fermami perché io non mi fermerò" e lì mi hanno arrestato».Hai fatto quattro anni di carcere, è lì che è avvenuto il tuo cambiamento?
«Non esattamente, in carcere veniva un operatore della Papa Giovanni, una volta al mese, ho fatto 30 colloqui. Quando sono uscito mi ha proposto di andare in una comunità CEC. E qui ho avuto degli operatori che mi hanno accolto, accettato, accompagnato, ascoltato. Partecipai ad alcuni incontri e leggevamo Pane Quotidiano, quello che mi rimaneva era il commento di don Oreste. Avevo una forte sensazione di mancata espiazione. Certo ho fatto il carcere ma dovevo maturare ancora».Hai fatto anche un percorso psicologico?
«Quando sono stato al Pungiglione ho accettato un cammino con una psicologa. I primi appuntamenti dissi un sacco di bugie, poi ad un certo punto le dissi e le chiesi se potevamo ricominciare. Fortunatamente lei mi disse: “Accomodati”».
Che cosa nascondevi?
«Io potrei anche parlare di un’infanzia di abusi e di violenze ma sono tutte scuse. Ho avuto paura di vivere. Ci sono i reati per cui sono stato in carcere ma ci sono altre cose gravi: la prima volta che ho votato c’era il referendum sull’aborto. Io partecipavo ad una campagna a favore dell’aborto. Mi stonava, la coscienza mi diceva che era sbagliato, ma io ero “nato per sbaglio” e stavo difendendo l’aborto, che passò per una manciata di voti. Io ho partecipato a quelle morti. Io ho calpestato tutto e tutti. Avevo un’attività commerciale con i videopoker, la attrezzai con una sala fumatori, perché il gioco vuole il fumo. C’erano queste macchinette, e io vedevo la gente finire le proprie risorse, vedevo padri di famiglia giocarsi tutto. Li facevo star bene: il riscaldamento al massimo, per l’aria condizionata non badavo a spese. Perché erano dei portafogli, dovevano portarmi soldi, tanti soldi».Nel percorso di recupero è andato tutto liscio?
«Un giorno in comunità mi dissero che avremmo toccato il tema della mia paternità. Andai su tutte le furie, volevo andarmene e avevo già preparato le valige. Quella sera mi chiesero di accompagnare il gruppo in missione su strada. Ricordo due ragazze, che si vergognavano per come erano vestite e chiesero di cambiarsi. Mentre pregavamo cominciarono a piangere. Chiesero se il Signore le avrebbe mai perdonate per quello che facevano. Loro avevano segni di violenza, erano obbligate a stare sulla strada. Io che avevo potuto scegliere ancora non avevo chiesto perdono. Ho capito perché “ci precederanno nel regno dei cieli”. Ho disfato le valigie e sono rimasto».Come hai rielaborato l’esperienza di tuo fratello disabile?
«Quando partecipai per la prima volta alla 3 giorni generale della Comunità Papa Giovanni XXIII ho visto un bambino con le stampelle che trascinava le gambine e giocava con gli altri… e non ho mai visto così tanta felicità. Mi è tornato in mente mio fratello, che ho sempre rifiutato, come gli anziani e i barboni. Non potevano stare nel mio locale perché mi rovinavano l’immagine. Accanto a queste persone adesso ho imparato a piangere, e a rendermi conto di quanto avessi fatto schifo».Ora sei tu che accogli
«Le fragilità che ho incontrato nella Comunità Papa Giovanni XXIII mi hanno fatto capire che esiste una possibilità. La resurrezione esiste in vita, non c’è bisogno di morire. Risorgi in vita - almeno per me - quando accetti quello che sei stato, senza sconti. E più ti accetti più ti rendi capace di accogliere gli altri. Capisci che il miserabile che sei stato non ti permette di giudicare alcuno. Riesci ad accogliere qualsiasi reato».Da anni, la Comunità Papa Giovanni XXIII, e te in prima linea, ha avviato una profonda e complessa riflessione sui carcerati. Perché?
«La Comunità ha risposto ad un grido assordante quanto silenzioso di esseri umani che stanno vivendo in maniera disumana dentro strutture alienanti. Di fronte alla sofferenza si hanno varie possibilità: girare le spalle ed è la cosa più semplice e non poco diffusa. L'altra possibilità è parlare del problema come se a forza di incontri e riflessioni, il problema si risolvesse. I membri della Comunità, nel loro piccolo, con tanti difetti e limiti, in forza della condivisione diretta, hanno scelto di aprire prima il cuore e poi le case all'accoglienza. Ciò ha permesso e permette di conoscere il detenuto e i suoi reali bisogni e di dare le risposte che servono realmente. Ci diceva don Oreste che le cose belle prima si fanno e poi si pensano».Non tutti hanno questa sensibilità, e soprattutto i cittadini onesti vogliono essere sicuri che il “delinquente” sia messo nelle condizioni di non nuocere…
«Dopo venticinque anni che lavoro con i detenuti, anche io di fronte a certe notizie reagisco pensando: “Butta via la chiave”, oppure “Solo la galera". Sono i primi pensieri, istintivi. Ma non sono quelli giusti. Generano violenza dentro e fuori di noi. Bisogna usare l'intelligenza. Partiamo dai dati di fatto: come ho scritto nel recente libro “Carcere. L’alternativa è possibile”, su 100 detenuti che svolgono un percorso interamente dentro il carcere, 75 tornano a delinquere. Quando invece si usano le pene alternative la recidiva si abbassa al 21%. Nelle nostre strutture al 15%. Cioè su 100 persone solo 15 tornano a delinquere. Allora cosa conviene fare per il bene della società? Oltretutto ci sarebbe un risparmio di milioni di euro e uomini che tornano ad essere cittadini attivi ed onesti. Il 60% di chi entra il carcere ha già fatto il carcere. Quando sentiamo di uno che era già stato in carcere, il primo pensiero è : “Allora è proprio cattivo”. Quello che dovremmo invece dire è: “Ancora una volta il carcere ha fallito!”»Come funzionano le CEC?
«Le CEC sono Comunità Educanti con i Carcerati. Sono realtà in cui ci sono circa 15/20 persone di varie nazionalità, culture, religioni ed anche di età. Si prega insieme, si lavora. Il lavoro principale è quello della revisione della propria vita, andando a visitare quelle che sono state le ferite nel passato. Contemporaneamente poi la convivenza mostra molto chiaramente come oggi quelle ferite si manifestano. Dedichiamo del tempo alla formazione spirituale che suscita speranza e permette un confronto su quelli che sono i valori che orientano le scelte di vita. Lo facciamo con un confronto quotidiano con la Parola di Dio. È un momento fondamentale, suscita speranza e permette di attivare percorsi di perdono e di riconciliazione. Molte di queste persone hanno avuto problemi famigliari, specie con la figura paterna. La forza della comunità è proprio l’essere comunità: persone che vivono insieme, aiutandosi. Ogni casa è frequentata da volontari appositamente formati. Ognuno di loro segue personalmente un recuperando con almeno un colloquio settimanale, oltre allo svolgimento di altre attività ricreative. Quasi in tutte le CEC sono presenti persone con problematiche psichiatriche provenienti dai servizi sociali, a volte anche autori di reato. La condivisione anche con queste persone è molto efficace sul piano educativo. Le persone con handicap sono capaci di sciogliere i cuori più induriti, avvengono veri miracoli. Alcuni recuperandi hanno scelto di tornare in carcere, perché la vita comunitaria è dura, è esigente. La maggioranza però va avanti e con ottimi risultati, non pesando sui contribuenti, e preparandosi ad essere buoni cittadini».