«Ridurre milioni di persone alla fame e allo stremo, è un crimine degno delle peggiori guerre».
Il Libano, visto con gli occhi dei profughi siriani, non è mai stato un luogo semplice in cui vivere. Proprio per questo che l’abbiamo scelto, come Operazione Colomba, per stare al fianco di chi lotta per sopravvivere ogni giorno tra mille ostacoli, dal difficilissimo accesso alla sanità alle violazioni dei diritti umani e la libertà di movimento negata, ma sempre con grande dignità.
Corruzione endemica, povertà ed enormi disuguaglianze sociali hanno sempre caratterizzato il Paese, ma a partire dal 2019, tutto è andato sempre peggio per ogni comunità che abita e compone lo Stato, principalmente libanesi, siriani e palestinesi.
«Pane, libertà e giustizia sociale» cantavano persone di ogni confessione religiosa, unite insieme nelle piazze del Libano, in un forte clima di festa. Probabilmente nessuno immaginava che, da lì a breve, nelle loro case sarebbe letteralmente mancato anche il pane.
A partire da quell’anno è come se la potenza della rivoluzione abbia portato con sé una specie di onda d’urto che ha provocato diversi eventi drammatici, in serie, senza nessuna tregua. Dopo ognuno di questi eventi, come l’esplosione del porto di Beirut, tutti nel Paese ingenuamente pensavano di aver toccato il fondo (e noi lo pensavamo con loro!), per poi ogni volta renderci conto che ci sbagliavamo, che quel fondo sembra non avere fine, anzi continua a sgretolarsi e le persone sono schiacciate ancora più giù.
Libano: si muore nelle risse per la benzina
Infatti, oggi la sensazione è che venga pian piano a mancare la terra sotto i piedi. Prima per la mancanza di medicine, poi per la benzina, poi per la difficoltà di reperire cibo e i prezzi alle stelle. La terra crollerà, ma nessuno sa come e quando. Dopo le continue batoste ricevute, la gente oggi vive in attesa che qualcosa di ancora peggiore accada, ma nessuno sa dire di cosa si tratterà e quando avverrà. Forse una settimana, forse mesi, forse anni. La sfida è vivere alla giornata, senza pensare al domani. Molte persone non si sfogano più, non hanno più lacrime. Sembrano avvolte da un velo spessissimo di tristezza, che usano come scudo per provare a non farsi troppo male, in questa nuova guerra.
Guerra: dopo anni al fianco dei siriani questo termine fa paura ed evoca troppi orrori, tanto che ho sempre il timore di utilizzarlo per un contesto in cui non si bombarda e non ci sono decine di feriti al giorno.
Ma in Libano le notizie dei morti aumentano, gli spari si sentono quasi tutti i giorni, anche dal villaggio di Tel Abbas dove viviamo. Le strade si riempiono di foto di ragazzi ammazzati in delle risse per la benzina.
Un giorno cercavamo un taxi ed una famiglia libanese ci ha fatti salire sul loro furgoncino:
«Da dove venite?» ci ha chiesto la madre, una donna molto bella e sorridente.
«Dall’Italia» abbiamo risposto.
«Beati voi, almeno lì non c’è la guerra». Istintivamente ho chiesto il perché di quella affermazione, in Libano non c’è la guerra. «La guerra economica è peggio di quella che si combatte», ha risposto lei, lasciandoci spiazzati e con molto su cui riflettere.
La situazione attuale è peggiore della guerra civile
Molti in Libano ci dicono che questo periodo è più difficile della guerra civile. Come Ava, una donna libanese di origini palestinesi, che abbiamo conosciuto diverso tempo fa e che era davvero contenta di rivederci a Beirut, dove lavora per un’associazione che tutela i diritti delle donne.
Qualche giorno prima del nostro appuntamento ci ha detto che avrebbe pregato Dio di trovare della benzina in modo da poter raggiungere il suo ufficio. «Non posso fare dei piani per i prossimi giorni, ci vedremo quando Dio lo vorrà. Sai, questo è il mondo in cui affrontiamo la vita qui. In realtà lo è sempre stato, ma in questi giorni è ancora più evidente». Poi ha allegato a questo messaggio una foto di fiori fuxia ed ha aggiunto: «Questi fiori sono del mio giardino, mi piacevano e li ho fotografati. Come tu sai, tutto dipende dalla prospettiva con cui guardi le cose».
Durante il nostro incontro è stata tra le poche a regalarci un po’ della speranza che ancora custodisce, nonostante la sua dura percezione della situazione:
«Durante la guerra ero giovane ed ero attiva, aiutavo le persone. Non mi rendevo conto dei pericoli, chi se ne rendeva conto erano le persone che come voi erano venute a portare solidarietà. Ma io no, e poi tutti avevamo da mangiare, avevamo le medicine. Oggi per me è più dura, possiamo solo continuare a sperare e stare a vedere quello che succederà».
Chi invece di speranze non ne ha più, sono le persone come Wassim, che a partire dall’ottobre del 2019 si sono dedicate anima e corpo a quella miccia di cambiamento che sono state le manifestazioni. Wassim dormiva in piazza, passava da casa solo per lavarsi. È sopravvissuto per miracolo all’esplosione del 4 agosto, e quel ricordo ancora lo tormenta.
Subito dopo, ha messo su un gruppo di ragazze e ragazzi come lui, che instancabilmente aiutavano le vittime, senza differenza di provenienza o di religione.
Wassim ci ha creduto davvero, ed ora si ritrova con un pugno di mosche in mano. Difficile reggere il suo sguardo, quando con rabbia ci ha chiesto: «Ad oggi, dopo aver sacrificato quasi 2 anni della mia vita, che cosa ho ottenuto? Che cosa è cambiato?».
La sua rabbia è collettiva, le feste in piazza non esistono più: hanno lasciato il posto alla disperazione della fame, agli scontri armati che iniziano ad essere sempre più frequenti. La società civile libanese è stata abbandonata a se stessa, le persone come Wassim lasciate a raccogliere i cocci dei loro desideri infranti, del loro sogno tanto banale di vivere in un paese più giusto.
La fame e la crisi di oggi sono i risultati di questa precisa scelta, perché, come le vittime dei conflitti ci hanno sempre insegnato, non agire in una situazione di ingiustizia vuol dire senza dubbio prendere una posizione.
I profughi siriani, capro espiatorio
Ma nel Paese c’è un’ulteriore guerra, in corso già da anni, che si riaccende in tutta la sua violenza in questi giorni: una terribile guerra tra poveri, di cui a fare le spese sono senza dubbio i profughi siriani.
Sono sempre loro i target di molti media razzisti, che cercano un capro espiatorio su cui indirizzare la rabbia popolare, sono loro che hanno già perso tutto una volta e ora non riescono ad immaginare dove andare se la situazione nel paese dovesse peggiorare ancora, in un paese in cui molti, dai politici ai semplici cittadini, sostengono che la Siria sia ormai sicura e che loro dovrebbero farvi ritorno.
Ma in Siria la guerra non si ferma, la sicurezza non esiste e la fame imperversa quasi ovunque.
C’è chi continua ancora a scappare per cercare rifugio in Libano, altri invece decidono che è meglio morire nel proprio Paese e per disperazione decidono di tornare: i siriani vivono in questo circolo vizioso senza fine da almeno 10 anni. Anche nel campo di Tel Abbas in cui viviamo la gente è stanca. Le donne che la sera siedono fuori a fumare e bere il tè si sostengono a vicenda, ed alternano i sorrisi ai pianti. «È sempre stata dura, ma inizia a diventare impossibile. Grazie a Dio siamo vivi, in qualche modo andremo avanti» dicono, durante le pause dalle lunghissime lamentele sui rincari, sulla mancanza di medicine e di elettricità. Anche i bambini ormai hanno imparato a parlare solo di questo, e alcuni di loro si fanno sfruttare nei campi per poche lire al giorno, mentre i più piccoli restano ciclicamente senza nutrirsi a causa della mancanza di latte in polvere.
Poche settimane fa, in un villaggio libanese sul confine con la Siria, un soldato siriano ha chiesto ad un nostro amico siriano, profugo e bloccato in Libano, che come quasi tutti verrebbe arrestato se oltrepassasse la frontiera con il suo Paese, se poteva comprargli un panino perché era affamato.
Quel soldato in altre occasioni avrebbe potuto fargli del male, ma il nostro amico non ha esitato a comprargli da mangiare, perché negare il cibo a chi è affamato è un crimine.
Ridurre milioni di persone alla fame ed allo stremo, è un crimine degno delle peggiori guerre.