Topic:
5 Aprile 2025
Ultima modifica: 5 Aprile 2025 ore 09:47

Massimo e Simone. Due cuori generosi

La loro morte improvvisa, avvenuta 15 anni fa, non ha spento la luce del loro esempio, che continua a ispirare molti.
Massimo e Simone. Due cuori generosi
Massimo Barbiero e Simone Montesso, due giovani missionari della Comunità Papa Giovanni XXIII, hanno perso la vita il 6 aprile 2010 durante un'escursione sulle Ande in Venezuela. Massimo aveva dedicato 10 anni della sua vita ai poveri della baraccopoli di Soweto, in Kenya. Simone, 23 anni, educatore di Bolzano, era giunto in Venezuela per un’esperienza di volontariato, portando con sé entusiasmo e una gioia contagiosa. Le loro vite, spezzate prematuramente, e il loro impegno verso gli ultimi, sono state di ispirazione per uno spettacolo musicale.
Sì, le loro vite sono state spezzate all’improvviso, nel fiore della giovinezza. Erano andati a fare una passeggiata in montagna, ma un temporale li ha sorpresi e in Venezuela la pioggia non fa sconti: quando è torrenziale, provoca slittamenti e frane. Quel giorno, il 6 aprile 2010, Massimo Barbiero, 36 anni, e Simone Montesso, 23 anni, hanno concluso la loro esperienza terrena. Ma noi non vogliamo ricordarli per quell’incidente. Vogliamo invece raccogliere tutto l’entusiasmo, l’amore e la gioia che hanno saputo diffondere attorno a loro.

Innamorato dei poveri

«Che i poveri ci siano sempre vicini»: aveva scritto così Massimo Barbiero, originario di Fossò (VE), su dei cartoncini ai quali aveva poi incollato dei sassi che aveva portato dal Kenya. Quei cartoncini li aveva poi distribuiti ai familiari e agli amici, un messaggio che ora è una sorta di testamento spirituale. «I poveri li aveva nel cuore e noi cerchiamo di tenere vivo questo messaggio» ricorda Alessandro Barbiero, papà di Massimo. Anche lui, come medico supportato dal CUAMM, era stato in Kenya diverse volte e Massimo lo accompagnava per fare da traduttore e poter curare meglio i poveri di Soweto, la baraccopoli dove Massimo ha vissuto per 10 anni come missionario della Comunità Papa Giovanni XXIII. «Viveva con la gente, come la gente, per la gente e lui era felice proprio della povertà» ricorda il papà. I poveri e i bambini: ecco il chiodo fisso di Massimo.

Barbiero Massimo in Kenya
Foto di Mino Diceglie
Massimo in Kenya
Massimo Barbiero ha vissuto per 10 anni nella baraccopoli di Soweto, in Kenya
Foto di Mino Diceglie
Massimo in baraccopoli
Foto di Mino Diceglie


Ruth Maina, che l’ha conosciuto in Kenya, ricorda di lui questo episodio: «A volte incontrava una madre che picchiava i figli e lui correva lì a risolvere i problemi anche se era notte. Di conseguenza molti bambini lo amavano e lo seguivano lungo le strade strette, sporche, disorganizzate di Soweto; non perché aveva dato loro dei soldi, ma perché era una figura paterna per loro. E, ogni volta che avevano problemi a casa, loro andavano da Massimo e lui dava loro rifugio e cibo».
Harun Kiritu, un altro abitante di Soweto, racconta: «Una volta Massimo andò in una piantagione di caffè e chiese un lavoro come raccoglitore di caffè. Era così divertente, per il datore di lavoro, che un uomo bianco chiedesse questo tipo di lavoro. “Vai e lavora!” gli disse, senza prenderlo sul serio. Massimo si unì alla schiera di lavoratori, soprattutto giovani donne e poveri, e presto si trovò in competizione nel raccogliere il caffè: imparava velocemente e riuscì a fare meglio di alcuni di quelli con più esperienza! Lavorò lì per tutto il giorno. Con sorpresa di tutti, quando ricevettero il salario, condivise i suoi soldi con gli altri raccoglitori di caffè».

Massimo per diversi anni si occupò di alcuni anziani della baraccopoli: «Conoscevo bene Massimo e rimasi con lui per molto tempo – ricorda David Ng’ang’a –. Quando veniva al Nyumba ya Wazee (una casa per anziani) mi chiedeva di dargli tutti i miei vestiti, prendeva ago e filo e li riparava. A volte ci volevano ore ma, mentre lo faceva, raccontava storie con felicità. E quando aveva finito con i miei, chiedeva agli altri di portare anche i loro vestiti».
Peter Kinyanjui, che è membro Apg23 e ha vissuti diversi anni con Massimo, ricorda: «Un giorno eravamo andati insieme a messa e il parroco, durante l’omelia, disse che bisognava fare una raccolta fondi per ricostruire la chiesa di Soweto. Insisteva molto perché ciascuno desse dei soldi. Io vedevo che Massimo era irrequieto, non riusciva a stare fermo e alla fine dell’omelia alzò la mano chiedendo il permesso di dire qualcosa. Il parroco, contento, lo fece avvicinare all’altare. “Sì, è giusto costruire la chiesa – disse Massimo – ma forse non è il momento giusto, visto che c’è gente che muore di fame. La chiesa può aspettare, mentre i poveri non possono aspettare. Prima vengono i poveri, poi in futuro ricostruiremo anche la chiesa, che secondo me è già bella così com’è”». Era così Massimo: con la sua radicalità, unita alla mitezza, spiazzava tutti.
 
Tanti kenioti portano nel cuore bei ricordi di Massimo, così come tanti giovani che sono passati da Soweto come volontari o caschi bianchi. Ad esempio Mino Diceglie: «Ero in Kenya come casco bianco e mai avrei immaginato di incontrare un uomo come lui. Massimo era il responsabile di zona della Comunità Papa Giovanni XXIII in quel periodo, e viveva in un modo molto particolare che inizialmente ho fatto fatica a capire: Massimo abbracciava la povertà come scelta di libertà e non come condanna. Ogni incontro con lui era una sorpresa, un insegnamento che andava oltre le parole».

Una gioia di vivere contagiosa

Simone Montesso era originario di Bolzano e si era appena laureato come educatore. Aveva nel cuore il desiderio di fare il casco bianco e, in attesa delle selezioni, aveva deciso di fare un’esperienza in missione con la Comunità Papa Giovanni XXIII. «Era una persona estremamente limpida, generosa, altruista. Era empatico, sensibile» racconta Lara Montesso, cugina di Simone.
«Entrambi siamo figli unici, eravamo cugini, ma in realtà avevamo un rapporto molto profondo: per me è stato come un fratello e anche fonte di ispirazione e di crescita emotiva. Lui riusciva ad entrare in connessione profonda con le persone, da sempre aveva attitudine verso il sociale, verso le relazioni, voleva spendersi per gli altri. Riusciva a mettersi in relazione con i disabili con naturalezza. Simone, con la sua spontaneità, faceva sentire tutti a proprio agio».

Ines Meggiolaro, che nel 2010 era la responsabile della Comunità in Venezuela, ricorda così Simone: «Era arrivato a marzo, mi ha colpito la sua giocosità, la gioia, il sorriso sempre sereno; era un ragazzo positivo, stava molto con i bambini e gli piaceva giocare con loro. Voleva fare un’esperienza anche in Africa».
Paolo Ramonda, che allora era responsabile generale della Comunità, ha avuto modo di incontrare Simone qualche settimana prima del tragico incidente: «Ricordo che ho fatto un bel colloquio con lui, che si era inserito bene nella casa. Era un giovane disponibile, entusiasta, aperto».
Simone e Lara si sentivano spesso, anche durante l’esperienza in Venezuela erano in contatto: «Lo sentivo felice, perché stava realizzando un suo desiderio. Mi diceva che c'era un ragazzino disabile a cui si era legato molto. “Se potessi, me lo porterei in Italia”, diceva».
 
Queste due vite generose continuano a portare frutto anche oggi. Il loro esempio e le loro storie hanno ispirato il maestro Carlo Bertoni, direttore artistico del T’ho trovato vocal group, che ha composto due canzoni in ricordo di Massimo e Simone. «Ci ha colpito molto la notizia della loro scomparsa e abbiamo iniziato subito a preparare uno spettacolo in loro ricordo» spiega Luciana Micheletti, che fa parte del gruppo. «Anche negli spettacoli che abbiamo preparato successivamente, ci sono sempre un paio di canzoni in loro ricordo».
Il 31 maggio, a Fossò (VE) Simone e Massimo verranno ricordati anche con la musica: «Ti darò le mie mani, darò tutto di me / perché so che domani guarirò quel “perché” / Ti darò questi occhi per chi luce non ha / e sarò il Tuo silenzio che amore dirà».