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23 Agosto 2024
Ultima modifica: 23 Agosto 2024 ore 10:06

Meeting di Rimini: la famiglia è luogo di speranza

L'intervento di Matteo Fadda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII
Meeting di Rimini: la famiglia è luogo di speranza
L'esperienza delle case famiglia che accolgono 24 ore su 24, 365 giorni l'anno; ma anche della missione dove si testimonia che è possibile condividere la vita e costruire la pace
«La famiglia pensata da Dio è la base sicura su cui costruire la nostra società. Allora raccontiamole queste esperienze di famiglie, facciamole conoscere». È l’appello conclusivo che lancia Matteo Fadda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, al termine di un incontro al Meeting di Rimini su «Famiglia: luogo di speranza». In un Auditorium stracolmo come negli incontri più gettonati, si sono confrontati Vincenzo Bassi, presidente di Federation of Catholic Family Associations (FAFCE); Fabiola Bianchi, dell’Associazione Papa Giovanni XXIII; Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta; Matteo Fadda, presidente dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII; Jean- Luc Moens, della Comunità Emmanuel, coordinati da Luca Sommacal, presidente dell’Associazione Famiglie per l’accoglienza.

Dalla teoria alla pratica. L’accoglienza in Grecia

Ci sono due modi per parlare della famiglia come luogo di speranza: o si imbastisce una fiera della retorica o si dà voce ad esperienze in cui certi valori non sono parole ma pratica quotidiana. Gli organizzatori del Meeting hanno scelto la seconda strada, portando in primo piano esperienze significative di oggi e di un recente passato. 
Fabiola Bianchi con il marito Filippo e i figli naturali vive da dieci anni in Grecia, ad Atene, dando vita ad una casa famiglia dove sono accolti soprattutto profughi e poveri di strada. «Siamo partiti – esordisce – senza sapere né il dove né il quando, affidandoci a Dio attraverso la nostra Comunità e il carisma con il quale ci ha chiamati. In Grecia noi stessi siamo stranieri, siamo accolti ed accogliamo persone che vengono da paesi lontani con lingue, culture diverse, ma soprattutto con storie e traumi». Fin qui potrebbe essere uguale ovunque. Ma Fabiola spiega: «La nostra è un’accoglienza di frontiera. In Grecia non ci sono filtri come i servizi sociali. Ci siamo noi e i poveri che bussano alla nostra porta, Dio nel mezzo e il discernimento con la nostra comunità. Nella condivisione diretta si impara che le diversità possono convivere anche se non manca il conflitto». È interessante scoprire qual è un motivo di incomprensione. «Loro fanno fatica a capire che non ci limitiamo ad offrire un posto letto ma li invitiamo a diventare parte della nostra famiglia. Sono diffidenti verso la gratuità e sentono il bisogno di metterci alla prova. Arrivare a capire perché li accogliamo per loro è un processo lungo. Però quando cominciano a fidarsi, ci fanno un dono immenso. Per noi è una meraviglia scoprire che diventiamo qualcuno quando siamo di qualcuno, quando facciamo l’esperienza di essere scelti, di appartenere».

I poveri ci uniscono

Nel corso dell’incontro si è parlato di conflitto, di dialogo, di perdono. «Le persone che accogliamo ci fanno sperimentare il valore del perdono, nel senso del guardare oltre, del guardare avanti. Loro che hanno subito tanti traumi, ci insegnano il perdono, la speranza. Accogliere queste persone significa accogliere il loro desiderio di pace, è questo ciò che ci portano in dono». 
Fabiola poi racconta della frase, molto provocante, di un ragazzo afgano: «Essere buona non è abbastanza, tu devi essere felice».  Detta da una persona che a 16 anni ha tentato il suicidio in un campo profughi, va presa sul serio. «Mi ha confidato – racconta Fabiola - che nei momenti di tristezza più cupa, gli dà speranza sentirmi parlare o ridere con qualcuno, Quindi da lui che è gravemente depresso, imparo il valore della gioia». 
Ed infine racconta la storia di un figlio accolto, un ragazzo africano arrivato nella sua casa dopo una storia che definire dolorosa e traumatica è un eufemismo.  Quando riesce ad ottenere il ricongiungimento con la madre che vive in Francia, accade un nuovo abbandono. Vuole studiare e grazie agli amici di Comunione e Liberazione di Atene si è creata una rete fra persone di vari paesi europei che lo sostiene per realizzare il suo sogno. «Mi fa piacere raccontarlo qui, perché è il segno che i poveri ci uniscono». 

Fadda: la casa famiglia e l’intuizione della Società del Gratuito di don Benzi

Matteo Fadda a sua volta ha tratteggiato il volto della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata a Rimini da don Oreste Benzi, comunità a cui appartiene la casa famiglia di Fabiola e Filippo in Grecia e tante altre realtà di accoglienza e di condivisione. «La nostra esperienza parte da ciò che don Oreste ci ha testimoniato con l’esempio: si può volere bene, si può fare famiglia con tutti, anche con chi non ce l’ha, anche con i poveri e i diseredati. Le nostre famiglie aprono le loro porte per la condivisione diretta di vita con gli scartati, 24 ore su 24, per 365 giorni all’anno. Tutto ciò ci ha portato a rafforzare le ginocchia, nella preghiera; a sostenerci a vicenda nella comunione fraterna, a cercare la sobrietà, mettendo in comune le risorse di ognuno, a promuove la collaborazione con le altre associazioni e movimenti, perché operano per lo stesso “datore di lavoro”». 
«La vera intuizione di don Oreste – prosegue Fadda - riguarda tutta la società. È possibile una società nuova che va al passo con gli ultimi, che rispetta la diversità e ne fa punto di forza? Don Oreste l’ha chiamata società del gratuito, dove gratuito non vuol dire gratis. Al centro di questa società non c’è il profitto ma c’è la persona coi suoi bisogni ed anche coi suoi doveri. Nella nostra esperienza abbiamo imparato che è possibile. È ciò che viviamo nelle nostre case famiglia, nelle cooperative sociali, nei progetti di cooperazione internazionale, nelle comunità terapeutiche.
Fadda ha concluso ricordando l’invito di papa Francesco a difendere la famiglia perché è garanzia del nostro futuro. «Torniamo ad annunciare la buona novella della famiglia. Scommettendo sulla famiglia, vinceremo».

L’esperienza dei coniugi Cyprien e Daphrose in Ruanda

L’altra esperienza portata in primo piano, attraverso il racconto di Jean- Luc Moens, della Comunità Emmanuel, è quella dei coniugi Cyprien e Daphrose Rugamba, e della loro famiglia, per i quali – per tutti, genitori e figli – è in corso il processo di beatificazione
La storia ci porta in Ruanda dove negli anni Novanta ci fu un violentissimo conflitto etnico fra Hutu e Tutsi. 
Cyprien era un importante intellettuale del suo paese; era anche artista famoso come compositore, cantante, coreografo.  
Nel 1965 sposò Daphrose, ma per molti anni il loro non fu un matrimonio felice.  Le cose cambiarono quando Cyprien, grazie alla moglie, si riavvicinò alla fede, tanto che nel 1990 introdusse la Comunità dell’Emmanuel in Ruanda. Nel paese dove era esplosa la follia genocida divenne, insieme alla sua famiglia, un profeta di pace e di riconciliazione fra le due etnie in lotta. Grazie alla loro testimonianza anche molte altre coppie furono indotte a superare le difficoltà del matrimonio e a salvare la loro famiglia. 
Il 7 aprile 1994 i soldati arrivarono nella casa di Cyprien  e Daphrosa Rugamba, dove con il permesso del vescovo era stata realizzata una cappella domestica. I soldati spararono sul tabernacolo, spargendo le ostie consacrate sul pavimento. Poi uccisero marito, moglie e i sei figli. Ma il loro messaggio di pace non è stato bloccato. Nel settembre 2015 è stata aperta la causa di beatificazione per tutta la famiglia. Ha detto in conclusione Jean- Luc Moens facendo riferimento all’esperienza dei coniugi Rugamba: «La famiglia è una scuola di perdono, e quindi costruisce la pace. La famiglia è una scuola di santità, e la santità è la chiave della pace»
Da parte sua Fabiola Bianchi ha voluti salutare il popolo del Meeting ricordando quanto, nella fatica quotidiana, per lei e suo marito sia diventata importante una frase di don Giussani che le hanno fatto  conoscere gli amici di CL di Atene: «Non progetti di perfezione, ma guardare in faccia a Cristo».