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16 Ottobre 2024
Ultima modifica: 16 Ottobre 2024 ore 20:49

Sbarco in Albania. Le critiche. La storia di Youssef

Il 18 ottobre si celebra la Giornata europea contro la tratta di persone e intanto piovono critiche sulla prima consegna di migranti all'hotspot albanese voluto e finanziato dal Governo italiano.
Sbarco in Albania. Le critiche. La storia di Youssef
Foto di ANSA/US POLIZIA ALBANIA
Un primo screening a Lampedusa, un altro in Albania, solo 7 giorni per fare ricorso e poi, chi non ha i requisiti, viene reimpatriato. Ma per molti può essere una condanna a morte, come spiega la storia di Youssef.
Stamattina è approdata in Albania la nave Libra, la prima della Marina Militare con a bordo 16 persone tutte di sesso maschile, egiziani e bengalesi. Secondo l'accordo sottoscritto tra Italia e Albania infatti, sulla nave a Lampedusa i migranti hanno ricevuto un primo screening. Chi è stato vittima di torture, donne e minori, soggetti vulnerabili sono stati indirizzati ai centri di accoglienza italiani, chi invece proviene da Paesi sicuri viaggia verso Shengjin, hotspot da circa 200 posti a nord di Tirana, dove completeranno l'identificazione e lo screening sanitario previsto solo per adulti di sesso maschile non vulnerabili. 

Chi soddisfa i requisiti e richiede asilo sarà trasferito a Gjader, dove sono state create tre strutture: un centro di accoglienza per richiedenti asilo (880 posti), un CPR per le espulsioni da 144 posti e un penitenziario da 20 posti per i reati commessi all'interno del sito.
La giurisdizione è italiana, la sicurezza gestita da forze albanesi, e la presenza dell'UNHCR per i primi tre mesi garantirà il rispetto dei diritti dei rifugiati.
L'intera procedura di asilo deve essere completata entro 4 settimane. Chi ha diritto sarà trasferito in Italia, mentre chi non lo ha sarà rimpatriato dopo il periodo di permanenza nel CPR. I tempi per eventuali ricorsi sono stati ridotti a 7 giorni grazie al nuovo decreto flussi e avverranno tramite videocollegamenti con il tribunale di Roma per esaminarli. Tempi dunque accelerati - a detta del governo - secondo un nuovo modello di gestione delle migrazioni «per difendere i confini italiani e fermare la tratta di esseri umani».

Il no di Corte Europea e ONG al trasferimento forzato e alla lista dei paesi sicuri

Da subito si sono moltiplicati gli appelli di diverse organizzazioni per fermare il "modello" italo-albanese. Amnesty International ha lanciato una raccolta firme Noi stiamo coi rifugiati perché venga garantita la possibilità di chiedere asilo in modo legale e sicuro attraverso canali di accesso e non trasferimenti obbligatori in zone di frontiera. Inoltre, ha precisato Amnesty, «la detenzione generalizzata, che può durare fino a 18 mesi, è una misura arbitraria e quindi illegale. Secondo il diritto internazionale, la detenzione deve essere un’eccezione, non una norma, e deve essere convalidata dal giudice sulla base di valutazioni individuali».
Ma ancora più significativa la posizione della Corte di giustizia dell'Unione Europea. In una sentenza del 4 ottobre i giudici hanno infatti bocciato la definizione di “Paesi d’origine sicuri” utilizzata dall’Italia nel protocollo. In base alla normativa italiana, Paesi come Tunisia, Egitto, Bangladesh, Nigeria e altri sono considerati sicuri per gran parte della popolazione, ma con delle eccezioni per gruppi vulnerabili e discriminati o gli oppositori politici.
Dunque un Paese non può essere designato sicuro solo per alcune categorie di persone o aree geografiche: o è sicuro per tutti o non lo è per nessuno. Inoltre nella lista dei Paesi sicuri secondo il Governo italiano ce ne sono alcuni dove la corruzione è ormai strutturale: la giustizia, le strutture politiche ed economiche, i diritti di categorie vulnerabili e delle famiglie indigenti non sono tutelati. Sono Paesi instabili dove il terreno è fecondo per i trafficanti di esseri umani. Secondo il recente Indice di Percezione della Corruzione, proprio tra quelli ritenuti "sicuri" il bollino rosso va ad esempio a Bangladesh, Nigeria, Camerun e il bollino arancione invece a Tunisia, Marocco, Albania, Colombia.

«Siamo passati dai muri alle prigioni», è il duro il commento diffuso oggi da monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Commissione Cei per le Migrazioni e della Fondazione Migrantes.

La vita delle persone non si può decidere con una videochiamata

Anche dalla Comunità di don Benzi parole di forte preoccupazione per la sorte di chi arriva in Italia sopravvivendo al viaggio dell'orrore perché vittima di tratta di persone a scopo sessuale o lavorativo.
«Non si possono decidere le sorti di un ragazzo bengalese, marocchino o camerunense - per citare solo alcuni dei Paesi di provenienza di quanti sono accolti nelle nostre strutture perché vittime di tratta e grave sfruttamento - attraverso delle videochiamate».
Martina Taricco, psicologa, referente del settore tratta della Comunità Papa Giovanni XXIII che insieme alla rete nazionale capitanata dal numero verde nazionale si appresta a celebrare venerdì 18 ottobre la Giornata europea contro la tratta, spiega che metà dei Paesi considerati sicuri in realtà sono luoghi in cui minorenni, giovani, donne sono reclutati sempre più via social e, se rimpatriati, cadrebbero di nuovo in pericolo tra le mani di sfruttatori senza scrupoli che ben conoscono le nostre regole: «Da anni vediamo che il fenomeno si evolve rapidamente a seconda delle legislazioni dei Paesi europei».
In Paesi come il Perù, la Colombia o anche il Camerun, la Costa d'avorio, il Bangladesh, il Marocco, dove la violenza diffusa a livello intrafamiliare e sociale e la corruzione sono ormai strutturali, i migranti rimpatriati, a detta degli operatori antitratta, diventano terreno fertile per la tratta di persone e le vittime non possono essere rimandate indietro.
«Penso anche a quanto sia difficile ricostruire il percorso migratorio e la storia di sfruttamento nelle commissioni territoriali - spiega Taricco -, ai colloqui che vengono fatti con un ascolto sensibile ai traumi e rispettoso della persona, delle sue specificità e con la necessaria mediazione linguistica culturale. La persona che arriva in Italia vive un ulteriore shock se viene inviato in Albania. Aumenta l'ansia e la diffidenza nel trovare protezione in Europa. In più le loro vite, in caso di ricorso, vengono decise in videocollegamento senza un contatto diretto con chi se ne occupa. Se penso a ragazzi destinati alla sfruttamento lavorativo, alle donne destinate a matrimoni forzati o sfruttamento sessuale, è tutto davvero angosciante.»

Il lungo viaggio di Youssef. «Se tornasse indietro lo farebbero fuori»

Per capire la gravità della situazione occorre passare dai numeri alle persone con le loro storie. Come quella di Youssef.
Classe '99, Youssef è nato e cresciuto nelle aree rurali a ridosso di Casablanca. Aveva anche provato a finire le superiori, senza via di scampo. Il papà operaio perde il lavoro all'improvviso e finisce nel tunnel dell'alcol e della depressione. La famiglia numerosa inizia a vivere l'inferno. Non è come in Europa dove puoi accedere a percorsi terapeutici e sussidi per famiglie indigenti.
Tra Youssef e il padre aumentano i litigi. Ma non si scoraggia e inizia a lavorare come muratore e poi come saldatore. Alcuni amici lo avvicinano per offrirgli soldi facili nello spaccio. Ma lui rifiuta. I soldi però non bastano e le pressioni del giro dei coetanei diventano sempre più pesanti. Sui social un amico lo invita in Europa perchè c'è lavoro. Allora decide di partire e con un pò di soldi da parte vola verso la Turchia. Dove inizia in realtà la sua odissea. Per proseguire il viaggio, è costretto a lavori pesanti per cinque mesi.
Poi a piedi, con mezzi di fortuna e via mare arriva in Grecia. Cerca di nuovo di guadagnare denaro per raggiungere i suoi connazionali ma spesso non ha nemmeno da mangiare. Lungo la rotta balcanica ha visto di tutto. Gente stremata dalla fame e dal freddo camminare a piedi lungo i confini. Militari che ti colpiscono per costringerti a tornare indietro senza motivo.
Finalmente raggiunge l'Italia, arriva a Milano e con l'aiuto di un connazionale inizia a lavorare come imbianchino. In nero. Una settimana. Pochi soldi e un alloggio fatiscente. Ma non è finita qui la sua odissea. I suoi connazionali lo invitano a trasferirsi in Calabria dove cercano braccianti. E lui di nuovo si fida e parte. Qui ancora un alloggio di fortuna, nessun documento, la promessa di una paga a fine giornata di 40 euro. Dopo una settimana ne ha guadagnati solo 100. Ma il peggio è quel caporale che non dà tregua. Un algerino senza scrupoli che gestisce per conto di un proprietario calabrese i suoi campi di mandarini. Se non lavori ti insultano. Qualcun altro rischia di morire di fame perché non sempre i soldi bastano. Youssef è uno dei tanti schiavi delle nostre campagne. Un giorno un collega muore accidentalmente. E allora si decide e va a denunciare il caporale e i connazionali che lo hanno invitato a lavorare lì.
È una scelta molto pericolosa e lui lo sa che se tornasse in Marocco lo farebbero fuori. Oggi Youssef è in protezione in una struttura per le vittime di tratta. Dopo un percorso di recupero per buttare alle spalle la violenza in famiglia, lungo il viaggio e nei campi, finalmente lavora con un contratto vero. Ha un nome, ha un documento, un contratto e una comunità si accoglienza che lo sostiene. Non è più invisibile e ha un luogo sicuro dove vivere. Il suo Paese di origine di certo, per lui, non lo è.