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29 Aprile 2025

«Non voglio più essere violento»

Studenti che picchiano i compagni. La storia di Gerardo
«Non voglio più essere violento»
Foto di Slava Rutkovski_Adobe Stock Photo
Da Lugo a Pesaro, da Lecce a Roma gli episodi del branco che organizza "spedizioni punitive" o del bullo che non molla la sua preda fuori da scuola o sui social sono all'ordine del giorno sulle pagine di cronache di questi ultimi mesi. Ma quasi mai si parla di chi accetta di farsi aiutare e di invertire la rotta. La storia di un adolescente del nord Italia che ha detto basta alla violenza
Gerardo (nome di fantasia) frequenta le medie, non ha una media alta ma la sufficienza sì. È un ragazzo tranquillo. Due mesi fa, inaspettatamente, inizia ad avere comportamenti “da bullo” con alcuni compagni. Finché dalle classiche palline di carta lanciate sul banco del suo vicino, una mattina passa alle mani tanto da buttarlo a terra e tentare di strangolarlo. Come avvenuto in altre vicende drammatiche, sono proprio i suoi compagni a riuscire a fermarlo. Eppure quell’esplosione d’ira improvvisa lascia oltre al compagno aggredito sotto choc, anche la classe e gli insegnanti sconvolti. Chi avrebbe mai pensato che potesse tentare di far fuori un coetaneo a soli 14 anni, in una scuola media come tante, del nord Italia dove non c’erano mai stati fatti gravi in precedenza?
Per Gerardo scatta la sospensione di 15 giorni. Ma la scuola non si dà per vinta. È un educatore che nella scuola media porta avanti da anni percorsi di prevenzione del disagio giovanile che ci racconta la sua storia. Quasi sottovoce, con parole delicate per una vicenda che per fortuna non è finita in tragedia, Federico ci spiega che viene subito interpellato dalla presidenza, concordi pure i genitori, perché è chiaro agli insegnanti che Gerardo “che non ha mai dato problemi” non sta bene. E quei 15 giorni di allontanamento dal sistema scuola non devono rimanere vuoti.

Ascoltare le proprie emozioni e quelle altrui, senza giudizio

«L’unica idea che avevo chiara in testa – racconta Federico che da diversi anni è impegnato nelle scuole medie e superiori del nord - in quel momento difficile per il ragazzino aggredito, per la classe, per i professori era che andava attivato un percorso che non fosse semplicemente espulsivo ma che fosse riparativo. Un progetto educativo con obiettivi precisi di ricostruzione di relazioni interrotte in quella classe. In quella scuola non esisteva un protocollo preciso su questi atti violenti ma la proposta viene accolta positivamente».
L’educatore organizza quindi colloqui e laboratori per aiutare Gerardo ad esprimere il disagio che lo ha portato a picchiare. Parallelamente una delle insegnanti si impegna a livello didattico a proseguire il percorso di studio di Gerardo con un’attenzione comune ad esplorare la gestione emotiva nei vari momenti. «Non volevamo mitigare la gravità delle sue azioni ma volevamo trovare una via perché potesse migliorare nelle relazioni coi coetanei. Faticava tantissimo ad entrare in contatto con se stesso, ad esprimere i suoi stati d’animo. Noi non avevamo certo un compito psicoterapeutico ma restavamo sul qui e ora. Abbiamo scelto una domanda precisa: “Cosa sta succedendo?”. La domanda di partenza è stata proprio questa. Non volevamo puntare su che cosa aveva fatto, che cosa avesse combinato e nemmeno sulla domanda “che cosa ti ha fatto di male il tuo compagno?” rischiando di sottendere giudizi pregressi da parte di chi la poneva e di aumentare la colpevolizzazione dell’aggressore o dell’aggredito».

Educare alla riparazione

Federico coglie dal dialogo con Gerardo che può essere utile puntare su un’attività manuale metaforica: utilizzando la frattura di mattonelle, si cerca di ricostruirle ricomponendone i pezzi. La tecnica del kintsugi nasce dall’antica arte giapponese che già 5000 anni fa utilizzava un metallo prezioso liquido per riunire i pezzi di un oggetto di ceramica rotto, esaltando le nervature che venivano create dal nulla. Una metafora delle relazioni che possono rompersi nella vita. La tecnica del kintsugi consiste nel riunire i frammenti di un oggetto, dandogli un aspetto nuovo attraverso le cicatrici. Ogni pezzo riparato diventa unico e irripetibile, perché è casuale il modo in cui l’oggetto si frantuma e sono irregolari e originali ramificate decorazioni che si formano e che vengono esaltate dal metallo.
«Gerardo si è gasato tantissimo – spiega l’educatore che lo ha affiancato. Mi è piaciuto molto questo lavoro insieme e soprattutto vedere come lui cercasse in modo originale delle soluzioni, dopo aver rotto la mattonella, per provare a ricostruirla a partire dalle sue crepe. Era interessante e direi inusuale come lui la rigirasse e cercasse sul fronte e sul retro di capire come ricomporla. Mostrava una intelligenza e una capacità nel cercare strategie e nel restare nel problema. Mi ha fatto pensare a quanto sia difficile stare dietro ad un banco di scuola per tante ore, a quanto possa essere frequente la noia, non la mancanza di intelligenza e di potenzialità».
Laboratorio rieducativo con la tecnica del kintsugi, metodo orientale di riparazione
Laboratorio rieducato con la tecnica del kintsugi, metodo orientale di riparazione

Riconoscere la violenza attraverso il riscatto di chi ha detto basta

Dopo questo percorso educativo fuori dall’ordinario, decisivo è stato l’incontro di due ragazzi di una delle comunità terapeutiche della Comunità Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi. In particolare hanno raccontato cosa avesse significato la violenza nella loro vita. Una sorta di biblioteca vivente, due ragazzi di circa vent’anni non troppo lontani dall’età di Gerardo. Uno di loro era stato anche in carcere. Ascoltare storie di riscatto di giovani è una modalità per attivare il riconoscimento dell’errore e la possibilità di interrompere la violenza, superando vergogna e paura. Della serie: se loro ce l’hanno fatta, posso farcela anche io. Alla fine di questo incontro, Gerardo è infatti riuscito a dire che era tutta sua la responsabilità di quell’atto violento, cosa che in precedenza non era riuscito a farlo. «Ha capito la sproporzione del comportamento che aveva messo in campo in reazione ad una situazione col compagno di banco che non aveva la stessa gravità. Questo è stato di certo un primo passo per lui nel far crescere il desiderio di non usare più la violenza come mezzo di comunicazione».
Non è cosa da poco riconoscersi responsabile di un comportamento dannoso oggi. E il tema della violenza è stato il filo rosso del percorso riparativo che ha coinvolto non solo chi aveva aggredito ma anche i compagni, e i professori. La classe è riuscita a mettere a fuoco e poi a raccontare la preoccupazione vissuta di fronte a quel gesto violento, l’ansia nell’intervenire per liberare il compagno dalle mani di Gerardo. Ma è stata anche l’occasione di far emergere altri agìti violenti avvenuti nel gruppo di pari. «È stato molto importante comunicare la fragilità anche se non è mai un passaggio facile. Eppure è quell’esperienza che permette di mettere in campo quello che veramente sentiamo e far cogliere a chi fa più fatica a mettersi in connessione che cosa far sentire in modo dichiarato che cosa le proprie azioni provocano in chi ci è vicino. Le relazioni umane sono una questione delicata che ha bisogno di cura».