In Timor Est, Papa Francesco ha parlato di pace e riconciliazione dopo il conflitto. Ma superare l'odio e abbandonare la violenza non è semplice, ce ne parla Alberto Capannini di Operazione Colomba, che da più di 30 anni si impegna per avvicinare il giorno della pace in zone di conflitto.
Il
Papa, durante la sua visita in
Timor Est, ha elogiato il paese per il loro esempio di
pacificazione e
riconciliazione. Nel suo discorso ha dichiarato:
Voglia il Cielo che pure in altre situazioni di conflitto, in diverse parti del mondo, prevalga il desiderio di pace, perché l’unità è superiore al conflitto, sempre. E questo richiede anche una certa purificazione della memoria, per sanare le ferite, per combattere l’odio con la riconciliazione, lo scontro con la collaborazione.
Papa Francesco
Ma come si può combattere l’odio e sanare le ferite?
Durante un incontro estivo organizzato dalla Papa Giovanni XXIII,
Alberto Capannini volontario di Operazione Colomba
, Corpo Nonviolento di Pace della Associazione, ha portato testimonianza delle sue missioni in zone di conflitto e ha cercato di rispondere a questo importante quesito.
Operazione Colomba è nata nel '92 con la guerra in ex-Jugoslavia. Tra i volontari di quell’anno c'è anche Alberto Capannini, che ha visto formarsi e crescere questa realtà di intervento nonviolento. L'incontro si è sviluppato in un'intervista a più voci, da cui si possono ricavare molti spunti di riflessione sulla pace ed il perdono, proponendo Operazione Colomba come un'alternativa alla guerra, un passo avanti verso la pace.
(R.) Partendo dalle basi, che cosa fa Operazione Colomba?
«La nostra idea è che bisogna vivere sul fronte perché crediamo che la nonviolenza, cioè l'alternativa più estrema della guerra, debba confrontarsi con essa e non può restare teorica. Operazione Colomba si basa su tre punti: il primo è la
condivisione, pensare che la mia vita vale come quella degli altri; il secondo è la
nonviolenza, cioè un qualcosa di più forte della violenza; il terzo è la
riconciliazione, quando è il più debole a determinare la situazione con il più forte. Noi cosa facciamo quindi? Proteggiamo le persone e mediamo tra loro. Ad esempio nel nord della
Colombia c’è un villaggio attaccato da tre forze militari, regolari e non, perché ha deciso di non schierarsi con nessuno di loro. Migliaia di loro sono stati uccisi, ma da quando c'è la nostra protezione le morti sono diminuite moltissimo.
Una situazione simile è nella città di Ebro, in
Palestina, dove nei territori palestinesi ci sono delle colonie israeliane. Qui i bambini palestinesi passano vicino alla colonia per andare a scuola e vengono attaccati da persone israeliane, queste rovinano anche le coltivazioni di ulivi: insomma gli rendono la vita impossibile per spingerli via. Quindi ci sono dei gruppi internazionali, tra cui noi, che mediano tra le parti e accompagnano questi bambini, pastori e agricoltori, proteggendoli.»
(D.) A me hanno sempre insegnato che le armi non vanno bene. Ma da quando è scoppiata la guerra in Ucraina sono nati dubbi sull’uso delle armi e su cosa sia il pacifismo.
«Gandhi disse una frase interessante, cioè che “è più facile tirar fuori il nonviolento da una persona violenta che da una persona passiva e indifferente”. Noi a passività e indifferenza siamo troppo abituati. Sul pacifismo si fa spesso confusione. Se pensi “perché invece di mandare armi non ci facciamo gli affari nostri che abbiamo già tanti problemi?” questo non è pacifismo. È egoismo. Invece
per me il pacifismo è non lasciare le persone morire in guerra. Personalmente, io non credo nelle armi e la mia soluzione è andare a stare dove c’è la guerra: serve un'alternativa alla guerra che sia dentro il conflitto. La risposta non è il pacifismo generico “è meglio la pace”, ma si tratta di capire quanto siamo disposti a pagare per avvicinare il giorno della pace. Il mio amico Hafez, un pastore palestinese, dice che “quando ti prepari a fare un'azione nonviolenta devi sapere che ci sarà un costo”. Sei pronto a pagare questo costo?»
L'odio si trasmette, usa le tue insicurezze e ti prende
(A.) Come si fa a gestire l’odio e la rabbia?
«Ho conosciuto tante persone che hanno ucciso, che hanno fatto violenze, e queste persone quando raccontano di quel momento è come se non parlassero di se stessi, perché l’umano non capisce il profondo significato di un gesto così. Martin Luther King dice una frase molto bella, cioè che “
l'odio è un fardello troppo pesante da portare”, è una cosa più grande di noi, che ti sfigura. L'odio in questo momento è un problema ovunque. Infatti quando uno vuole cominciare un cammino di nonviolenza, deve ricordare che l'ambiente è più forte di noi: non possiamo arrivare lì e pretendere di cambiare una realtà. Bisogna trovare una forza superiore a quella dell'ambiente.
Bisogna avere una sorgente da cui poter attingere qualcosa di più forte dell'odio, perché l'odio si trasmette, usa le tue insicurezze e ti prende. Ad esempio vai in Palestina e la rabbia ti fa sentire più palestinese dei palestinesi, ma non è reale: è l’odio che si è approfittato del tuo bisogno di giustizia. Noi possiamo essere due cose: termometri, cioè rilevare la temperatura in cui siamo, ma i termometri sono fragili e con temperature esagerate si spaccano; oppure possiamo essere termostati, cioè cercare di equilibrare la temperatura dell'ambiente.»
(Don M.) Come si fa a recuperare il perdono? Come si cerca di aggiustare quello che si era rotto e come ripartire?
«In Colombia c'è una scuola che si chiama scuola per il perdono e la riconciliazione che è gestita da due preti, uno italiano e uno colombiano, e siamo andati da loro a chiedergli racconti su questo argomento. Parlandoci di un caso che seguiva, questo prete colombiano ha detto “
non dobbiamo perdonare una cosa perché è piccola, dobbiamo perdonare una cosa perché è imperdonabile”. Il perdono quindi è una cosa illogica, una dimensione a cui non ci arrivi con la ragione.
C'è una signora con cui abbiamo lavorato in Israele e Palestina, è una signora israeliana a cui è morto il figlio in un attacco e fa parte di una associazione che si chiama
Parents’ Circle (col motto “famiglie in lutto per la pace”). È una associazione di cui fanno parte genitori sia israeliani che palestinesi che hanno perso un figlio in guerra.
Che cosa li unisce? li unisce il dolore, perché c’è qualcosa di più forte della violenza, cioè il perdonare.»
Pace: capire, entrare nella storia
(E. interviene) Il perdono è la pace.
«Probabilmente sì. Io sono immerso nell'odio che provano gli Ucraini, vivendo da due anni sotto le bombe dei russi. Quindi mi chiedo: come aiutare queste persone a non macerarsi nell'odio? È necessaria la pazienza di ricostruire, di capire, entrare nella storia. È come riparare un orologio pezzettino per pezzettino con pazienza, anche se basta pochissimo per romperlo di nuovo.
La pace non arriverà automaticamente, non arriverà da sola: il giorno in cui toglieremo la guerra dalla storia arriverà se noi facciamo qualcosa, se ci mettiamo la vita. Come avvicinare quel giorno almeno di un po'? La violenza è come un pozzo, più ci guardi dentro e più rischi di caderci. Si dice che se vuoi guardare la tua vita, devi guardarla tra le braccia di qualcuno che ti vuole bene, altrimenti cadi dentro a questo pozzo. Ma una persona mi ha detto una frase giustissima:
non mi dire di guardare la vita tra le braccia dell'amore se non sei tu quelle braccia.»
(S.) Come riesci a conciliare questa vita con la tua famiglia?
«Quando ho cominciato a fare Operazione Colomba c'erano ancora i videoregistratori e avevo parlato nella televisione locale, mia mamma teneva le videocassette di me in TV. Un giorno le ho chiesto "Perché le tieni?" Perché se ti ammazzano, io metto su la videocassetta e sparo alla TV, per dire l'ho ammazzato io mio figlio, per avere la soddisfazione". Perché
mia mamma dice che faccio cose molto belle, ma sarebbe bello se le facessero i figli degli altri. Perché devo farle proprio io? E io le dico: "Mi hai cresciuto tu e quindi è colpa tua. Io sono così e probabilmente questa sensibilità viene da te, non è colpa mia". Quando mi dicono “i tuoi figli non ti hanno avuto per un periodo”, sì è vero. Però se io avessi fatto il rappresentante tutti avrebbero accettato le migliaia di chilometri all'anno per fare soldi. Se avessi fatto il pilota di Formula 1 tutti avrebbero ammirato il rischiare la vita per diventare campione.
Io sono nato per questo e quando sto troppo tempo in Italia in pace mia moglie mi dice che sono sbalestrato, mi chiede “tu non dovresti vivere per la nonviolenza? – Sì – Allora che ci fai ancora qui?”.»