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13 Dicembre 2022
Ultima modifica: 13 Dicembre 2022 ore 10:09

Pietro Pinna. «Se vuoi la pace non preparare la guerra»

Nel 1948, dopo aver visto gli orrori della guerra, fu il primo a rifiutare il servizio militare dando al gesto un significato politico. Una scelta quanto mai attuale.
Pietro Pinna. «Se vuoi la pace non preparare la guerra»
Il 15 dicembre di 50 anni fa in Italia veniva concessa la possibilità svolgere un servizio civile sostitutivo di quello militare. Un riconoscimento importante, ma anche rischioso, secondo il primo obiettore di coscienza italiano. Ce lo spiegava in questa intervista esclusiva che ha concesso a Sempre nel 2004, che vi riproponiamo per la sua estrema attualità.
Firenze, settembre 2004. Fa un certo effetto partire per intervistare un obiettore di coscienza e trovarsi di fronte ad un signore di 77 anni. Ma Pietro Pinna non è un obiettore qualsiasi, è un’icona dell’obiezione.
Aveva poco più di vent’anni quando decise di rifiutare il servizio militare, pagando tutte le conseguenze che sarebbero derivate da questa scelta. Non aveva fatto particolari studi sull’obiezione di coscienza, a quei tempi un concetto pressoché sconosciuto se non a pochi intellettuali. Ma aveva visto gli orrori della guerra da poco terminata, aveva vissuto i bombardamenti nella sua città, Ferrara, aveva raccolto corpi straziati e consolato padri che piangevano i propri figli, e deciso che lui non avrebbe mai potuto collaborare a una cosa simile.
Così nacque in lui la decisione di un rifiuto netto, risoluto, senza cedimenti né compromessi a tutto ciò che è preparazione della guerra. Una determinazione che lo ha portato poi a dedicare tutta la sua vita a diffondere le ragioni della pace e dell’antimilitarismo.
A cinquantasette anni dall’obiezione di Pietro Pinna l’Italia ha deciso di sospendere la leva obbligatoria, passando ad un esercito fatto di professionisti volontari. Viene meno, così, quell’obbligo che ha portato decine di migliaia di giovani a fare la scelta dell’obiezione di coscienza. Ma permangono, più laceranti che in passato, quelle contraddizioni che spingono Pinna a dire con forza che solo la strada del disarmo unilaterale può portare ad un mondo di pace.
Siamo andati a trovarlo nella sua abitazione di Firenze, dove vive dopo essersi ritirato, all’inizio degli anni ’90, dall’impegno attivo nel Movimento Nonviolento. Un appartamento mansardato dall’arredamento semplice, essenziale, carico di ricordi. Sul tavolo un vecchio giradischi a valigia. Accanto, sopra una sedia, una scatola piena di 45 giri con in evidenza un disco di Louis Armstrong. Vicino alla luminosa finestra una poltrona con sopra una coperta, evidente luogo privilegiato per la lettura. Ovunque, nel soggiorno, pile di vecchi libri impolverati.
Inevitabile l’impressione di trovarsi nel rifugio di un profeta d’altri tempi.
Ma appena il signor Pietro - provato dagli anni e soprattutto da alcuni recenti malanni fisici - si accomoda ed inizia a rispondere alle nostre domande, lo sguardo si illumina, la voce prende forza e sicurezza e le parole cominciano a scorrere rivelando una fonte inesauribile di idee, di esperienze, di forza morale. Un pensiero ancorato alle esperienze giovanili ma capace di analizzare l’oggi con una straordinaria lucidità e profondità.
Pietro Pinna, primo obiettore di coscienza italiano, durante l'intervista concessa a Sempre nel 2004
Foto di Nicoletta Pasqualini

 
Signor Pinna, il suo rifiuto di prestare il servizio militare risale al 1948. Un contesto completamente  diverso da quella attuale. Ci può raccontare com’è andata?
«Il mio rifiuto del servizio militare avvenne proprio a ridosso di quella Seconda Guerra Mondiale che mi aveva investito dai 13 ai 18 anni. Una particolarità riguardante il momento in cui io posi in atto il mio rifiuto è che esso non avvenne all’inizio del servizio militare ma dopo circa un paio di mesi trascorsi in caserma. Un indugio ben comprensibile avendo presente il dominante clima culturale e politico di quel periodo, tutto pervaso dalla preoccupazione della predisposizione armata dello Stato, e tenendo presente che c’era allora una ignoranza pressoché totale circa una posizione di rifiuto militare per ragioni di coscienza. Una ignoranza sia concettuale - non se ne conosceva l’idea - sia fattuale: ignoti erano casi di obiezione di coscienza.»

c’era allora una ignoranza pressoché totale circa una posizione di rifiuto militare per ragioni di coscienza.

 
Se non sbaglio c’era stato qualche caso di rifiuto del servizio militare da parte di Testimoni di Geova.
«Se ne venne a conoscenza quando entrò nell’opinione pubblica la discussione intorno all’obiezione di coscienza. Quando anche i giornali cominciarono ad affrontare la questione si seppe di due casi precedenti, che non avevano tuttavia quella dimensione politica che acquistò il mio caso. Per i Testimoni di Geova era una decisione assolutamente individuale e non ne facevano una questione politica.»

Visto che l’obiezione di coscienza era sconosciuta, come le è venuta l’idea di praticarla?
«La decisione di rifiutare il servizio militare, come dicevo, non fu immediata. Ero già profondamente persuaso circa l’ingiustizia del servizio militare, tuttavia al momento di iniziare il servizio c’era ancora un po’ di indugio, in quanto se sul piano morale e sentimentale già da tempo ero giunto ad una assoluta opposizione alla guerra, sul piano concettuale non mi fu facile l’elaborazione di quelle idee. Che fu molto lunga, problematica e, direi, tormentosa, perché questa idea così nuova e solitaria veniva a porsi in lacerante contrasto con il pensiero e l’agire generale, che erano di totale accettazione del criterio della preparazione della guerra.»
 
Cos’è allora che ha fatto scattare in lei la determinazione a compiere un gesto così forte?
«Prima di rispondere direttamente, mi consenta di dire che ogni volta che mi viene posta questa domanda vengo preso da un sentimento sia di sorpresa sia di tristezza. Ma ancora, mi chiedo, dopo tante esperienze storiche, dopo due spaventose guerre mondiali che taluni di noi hanno vissuto - e io nel pieno della mia giovinezza ho visto la guerra in tutti i suoi aspetti nefandi - ancora oggi è possibile che si chieda ad un essere umano perché rifiuta la guerra?
Adesso torno ai fatti. Dicevo che la decisione di rifiutare il servizio militare è avvenuta dopo due mesi. Io stavo frequentando il corso allievi ufficiali e qualcuno malignamente diceva: "Ma come, questo che fa l’obiettore di coscienza aveva chiesto addirittura di fare l’ufficiale? C’è qualcosa di equivoco!". Ma la cosa è spiegabilissima: io avevo una famiglia povera; mio padre, guardia carceraria, era già in pensione, con quattro figli ancora in giovane età. Da poco io avevo potuto terminare i miei studi. In quello stesso anno, il 1946, ottenevo un impiego in banca che dava un po’ di respiro alla mia famiglia, ma dopo pochi mesi venivo chiamato al servizio di leva. Abbandonare proprio allora la famiglia significava vedere riaprirsi la piaga del bisogno e dell’affanno. Da diplomato, potevo chiedere l’iscrizione al Corso allievi ufficiali che automaticamente avrebbe differito la partenza di almeno un anno. E così feci.»
 
Veniamo alle motivazioni dell’obiezione.
«Quando decisi di obiettare, mi fu chiesto di presentare una dichiarazione scritta del mio rifiuto, nella quale io feci riferimento a ragioni di coscienza: non usai il termine "obiezione di coscienza" perché non lo conoscevo. Scrissi che "trascurando di prendere in considerazioni le convinzioni determinate da ragioni di fede, storiche, sociali e altro, le mie obiezioni nascono essenzialmente dall’impegno totale assunto sin dalla fanciullezza ad una apertura ideale e pratica a tutte le creature umane". E citavo i concetti di "non violenza" e "non menzogna". Per questo dichiaravo la mia "impossibilità a collaborare con l’istituzione militare".
Fin dalla fanciullezza ho avuto questo senso spontaneo, naturale di identificazione con gli altri, di attenzione, di rispetto, di solidarietà con tutti.
Poi c’erano ragioni storiche.»

I governi mica sono per la guerra... sono per la difesa! Hanno anche trasformato il nome del ministero competente.


In che senso?
«Riflettevo ad esempio sul principio che continua a reggere il criterio della preparazione alla guerra: il principio della legittima difesa. I governi mica sono per la guerra... sono per la difesa! Hanno anche trasformato il nome del ministero competente. Eppure nei primi 50 anni dello scorso secolo la nostra beneamata Patria aveva fatto ben sei guerre aggressive! Possiamo riflettere allora sulla bancarotta fraudolenta di questo principio di tenere gli eserciti a pura difesa quando servono invece ad aggredire? Io - mi sono detto - lo voglio mettere in discussione questo principio!
Questo è un problema fondamentale dell’obiezione di coscienza che coinvolge tutti noi. Non dobbiamo continuare a dire: è colpa di Saddam, di Bush, delle multinazionali, delle centrali terroristiche... la responsabilità è di tutti noi perché tutti noi accettiamo il criterio della preparazione e tutti noi collaboriamo. Sono parte delle nostre tasse che vanno a finanziare le spese per la guerra. Siamo noi che facciamo il servizio militare. Siamo noi che fabbrichiamo le armi.»
 
Torniamo alla sua vicenda. Fino al 1972 in Italia non c’era una legge che riconosceva la possibilità dell’obiezione di coscienza al servizio militare. Pertanto lei ha dovuto subire processi, il carcere, addirittura una perizia psichiatrica. Lei è stato però molto determinato nel non mollare. Quanto ha giocato un desiderio di coerenza personale e quanto invece la consapevolezza del ruolo politico che stava assumendo la sua vicenda?
«È stata soprattutto la coerenza con i miei ideali di vita. Del ruolo politico io allora non ne avevo consapevolezza. Tutto quel che è nato di consapevolezza intorno alla portata dell’obiezione di coscienza si è svolto fuori. Io ero in galera. A sorreggermi fu invece questa persuasione: che avendo visto la guerra in tutti i suoi aspetti nefandi, io avrei accettato di sopportare qualunque cosa, fino alla perdita della vita, ma non avrei più dato il mio contributo ad una realtà del genere. In effetti a quel tempo rischiavo fino a 25 anni di galera: il carcere che avevi scontato non veniva contato come servizio militare e alla fine venivi richiamato. In tempo di pace questo poteva durare fino a 45 anni di età, in tempo di guerra fino a 65.»

avendo visto la guerra in tutti i suoi aspetti nefandi, io avrei accettato di sopportare qualunque cosa, fino alla perdita della vita, ma non avrei più dato il mio contributo ad una realtà del genere

 
Alla fine la vicenda si è conclusa con un congedo per "nevrosi cardiaca”: uno stratagemma utilizzato dall’autorità militare per chiudere questa faccenda senza fare ulteriore rumore.
«Le autorità ormai erano in seria difficoltà di fronte a questo caso. Se l’istruttoria del primo processo durò 7 mesi, il secondo processo fu celebrato per direttissima. La perizia psichiatrica si era esposta a dire che prima o poi avrei receduto. Anche perché non c’era via d’uscita. Questi luminari non avevano però tenuto conto della persuasione, una parola che mutuo da Capitini, questa forza interiore che ti prende e che ti fa essere fermo di fronte a qualunque conseguenza.
Pietro Pinna in manette durante uno dei processi che ha subito tra il 1948 e il 1950 per essersi rifiutato di svolgere il servizio militare

Uscito dal carcere di Napoli dove stavo scontando la seconda condanna, ricevetti una nuova chiamata a presentarmi al CAR di Bari. Lì però c’era già l’ordine di congedarmi. Fui sottoposto ad una visita medica all’ospedale militare. Mi fecero sdraiare a dorso nudo sul lettino. Il comandante si avvicinò e disse al vice: "Senti, ci sono delle sospensioni". Il vice si chinò anche lui fino ad una spanna dal mio petto e confermò "È vero, è vero". Arrivò così il congedo per nevrosi cardiaca, un espediente che fu poi adottato anche per successivi casi di obiezione di coscienza.»
 
E lei questa volta accettò.
«Pretendere di più poteva essere considerato un atto di violenza nei confronti delle autorità, che non potevano andare oltre. D’altronde il principio di non collaborare personalmente alla preparazione della guerra era stato rispettato: su questo punto l’autorità aveva ceduto e non aveva potuto costringermi ad indossare le armi.»

La legge ha spostato l'attenzione sul servizio civile, togliendo forza all'obiezione antimilitarista

Nel 1972 una legge ha riconosciuto l’obiezione di coscienza e la possibilità di scegliere il servizio civile, che all’inizio durava 8 mesi in più di quello militare. Poi si è arrivati ad una uguale durata. Infine, con la recente sospensione della leva obbligatoria a partire dal 2005, cade definitivamente la ragione per cui un giovane è spinto ad obiettare. Lo vede come un successo o un impoverimento?
«L’impoverimento non è di oggi per il fatto che viene sospesa la coscrizione militare. L’impoverimento è avvenuto nel 1972 con l’introduzione della legge per l’obiezione di coscienza. Fino a quel tempo il dibattito antimilitarista in Italia era fondamentalmente centrato intorno al problema dell’obiezione di coscienza, avendo in carcere questa testimonianza decisa, risoluta, senza nessuna compromissione, degli obiettori. La legge ha spostato completamente l’attenzione sul servizio civile: cosa nobile ma che non aveva nulla a che fare con l’obiezione di coscienza nel suo significato antimilitarista.
Non voglio squalificare il servizio civile: so che ha avuto una grande funzione sul piano umano nella maturazione di tanti giovani. Però sono pochi gli enti come la Comunità Papa Giovanni XXIII o la Caritas che hanno mantenuto un significato in chiave antimilitarista dell’obiezione di coscienza.»
 
Per molti il legame tra obiezione di coscienza e servizio civile è dato dal fatto che mentre mi dichiaro obiettore al servizio militare scelgo di fare il servizio civile a fianco delle vittime dell’emarginazione, della violenza sociale...
«Che ci fosse questo aspetto positivo è indubbio. Ma cosa vuol dire: "Mi porto dalla parte delle vittime della violenza?". Io assisto un singolo handicappato, e poi collaboro, ad esempio con le mie tasse, al fatto che si scateni una violenza che mi fa diventare handicappate mille persone... Io assisto persone che sono in difficoltà a trovare un alloggio, e poi lascio che quella violenza bellica mi distrugga un intero quartiere... Allora questo mio servizio civile non solo diventa insignificante ma addirittura una beffa.»

L'utopia di salvaguardare la pace con la difesa armata non regge

In passato lei ha assunto posizioni molto nette sul metodo con cui costruire la pace attraverso la nonviolenza, proponendo il disarmo unilaterale, integrale e immediato. Oggi che ha raggiunto l’età della saggezza, si sente ancora di sostenere una tesi così forte?
«Presentare una proposta del genere non è una cosa semplice. È un’utopia? D’accordo, io dico, ma è un’utopia non ancora provata. Mentre invece l’utopia della difesa armata a salvaguardia della pace ormai è ampiamente sperimentata e non regge. I rischi e i sacrifici a cui ti puoi esporre non li escludiamo, ma saranno immensamente inferiori rispetto a quelli non dico di un’aggressione ma anche solo di una difesa armata. Una volta che tu ti presenti disarmato all’avversario che ti viene ad aggredire, lui non ha ragione di buttare bombe atomiche o missili. Anche perché una delle ragioni della sua aggressione è quella di utilizzare le tue risorse economiche e produttive, per cui meno distruzione fa e meglio è.»
 
C’è chi dice che non c’è niente da fare, l’uomo è così, la guerra c’è sempre stata e sempre ci sarà.
«Riflettiamo sulla nostra esperienza. Nell’’800 l’Italia era divisa in vari staterelli che si combattevano tra loro. Dopo aver realizzato l’unità d’Italia non c’è stata più alcuna guerra interna: è bastato un semplice cambiamento istituzionale. Occorre oggi un vero cambiamento istituzionale che non è stato ancora realizzato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. Le singole patrie di oggi devono arrivare a considerare come loro Patria il mondo intero. La storia non è fatta di violenze impreviste, è frutto di relazioni. Le guerre nascono nel tempo. Io posso istituire relazioni tali per cui riduco in partenza del 90% le ragioni per cui il supposto nemico mi potrebbe fare la guerra. La prima difesa nei confronti del nemico è farselo amico. Noi invece intavoliamo sempre relazioni di tipo conflittuale: diciamo di essere per la pace e poi istituiamo quella massima istituzione di diffidenza che è l’esercito. Ma come faccio a dire che ti sono amico quando mi presento con una rivoltella in mano? Siamo in una situazione veramente schizofrenica. Eppure andiamo avanti... l’inerzia è una forza tremenda, nella natura fisica e anche nella natura umana.»
 
C’è anche chi scende in piazza per fermare la guerra.
«Questi movimenti per la pace si svegliano soltanto al momento dello scoppio della guerra con la pretesa di volerla arrestare. Ma è come voler fermare un ciclone con una rete da farfalle. Poi questi movimenti entrano in ibernazione per aspettare di svegliarsi soltanto agli squilli della guerra successiva. Ma per dare una risposta definitiva è l’idea in sé della guerra che va messa in discussione! E allora non bisogna aspettare ad agire quando la guerra si mette in atto, ma impedire veramente la guerra scalzando il suo strumento portante che è l’esercito.»
 
Sembra un obiettivo difficile da raggiungere.
«In una concezione religiosa e nonviolenta non devi aspettare i frutti del tuo lavoro: quelli non ti appartengono. Tu fai quello che devi fare e basta, quello è il tuo compito! D’altronde questa è un’esperienza comune: tu assisti il genitore anziano, sai che è condannato e che le tue cure hanno possibilità nulle, ma tu profondi le tue energie e tutti i tuoi mezzi per cercare di fare quello che in quel momento senti di dover fare. Lo facciamo tutti, continuamente. È un dovere, una spinta naturale.
Del resto è un dato di fatto che il futuro non ti appartiene, la situazione può cambiare completamente. A te compete di dare testimonianza e affermazione all’atto di valore, il quale è tale se viene compiuto qui e subito. Perché noi viviamo nel presente ed è quello che qui ed ora si fa nel presente che può eventualmente valere per il futuro.»
 
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Chi è Pietro Pinna (1927 - 2016)

Nasce a Finale Ligure, in provincia di Savona. All’età di tre anni si trasferisce con la famiglia a Ferrara.
Frequenta le scuole commerciali di avviamento al lavoro e privatamente riesce a prendere il diploma di ragioniere.
Nel 1948 inizia la vicenda della sua obiezione di coscienza al servizio militare che, dopo processi, reclusioni e varie richiamate alle armi si conclude nel 1950 con il congedo per “nevrosi cardiaca”.
Nel 1960 lascia il lavoro e si reca nel Centro fondato in Sicilia da Danilo Dolci. Qui incontra anche la futura moglie, svedese, con la quale avrà due figli.
Nel 1962 inizia la collaborazione con Aldo Capitini a Perugia.
Nel 1968, dopo la morte di Capitini, mantiene la direzione del Movimento Nonviolento fino all’inizio degli anni ’90. Poi si trasferisce a Firenze e abbandona l’attività pubblica.