Foto di Chiara Bonetto
Nel veronese, dà un'occupazione lavorativa a chi è in difficoltà. A contatto con la natura, nel rispetto della natura, in un ambiente familiare
Proprio come un albero che ha le radici ben piantate a terra, e i rami che si estendono verso il cielo e verso il mondo, così Aleardo e Benedetta. Lui lavora la terra di famiglia, dove coltiva mele biologiche, a Palù, nel veronese. Lei viene dal mondo dell’attenzione agli ultimi: prima di sposarsi vive in una casa di pronta accoglienza – per adulti e poi per bambini – e ha all’attivo anche tre mesi di missione in Zambia, sempre con la Comunità Papa Giovanni XXIII.
Due esperienze che si mettono insieme e che come un albero danno buoni frutti. Aleardo e Benedetta hanno da poco festeggiato i loro 60 anni di vita e 30 di matrimonio.
Aleardo ci accoglie ma non può stare con noi. Siamo a fine settembre e siamo nel pieno del tempo del raccolto. Ci saluta e si allontana con il suo trattore con cui trasporta dei grandi cassoni che saranno riempiti di mele.
Una famiglia aperta
Stiamo allora a parlare con Benedetta. La loro famiglia è stata da subito una famiglia aperta: «Prima dell’arrivo dei nostri figli abbiamo accolto due fratellini in affidamento – racconta – poi nel corso della nostra vita abbiamo accolto degli adulti, poi un altro bambino che è rimasto con noi 9 anni». Una vocazione all’accoglienza raccontata con estrema naturalezza, e semplicemente integrata con la vita nei campi. «Il mondo dell’agricoltura è sempre stato aperto all’accoglienza, già nella famiglia mio suocero avevano accolto un ragazzo che aveva problemi economici, qui si chiamava el famejo. L’agricoltura è aperta a tutti. Ci piace che non sia un lavoro fine a se stesso ma abbia la finalità di dare dignità ad altre persone».
E così Benedetta e Aleardo cominciano a coinvolgere i ragazzi delle case famiglia nel lavoro nei campi. L’agricoltura si presta per tante attività all’aria aperta e a contatto con la natura che possono essere adatte, anzi, a volte la soluzione migliore, per persone speciali.
Come per Antonio: «Già lo appoggiavamo nei weekend come famiglia. Ad un certo punto la cooperativa dove andava non poteva più tenerlo perché era diventato aggressivo. Venire qui si è rivelata un’esperienza positiva. Pensa che lui non parlava e non salutava. Adesso parla talmente tanto che a volte dobbiamo dirgli che dobbiamo fare riposare le orecchie [sorride]».
Nasce la fattoria sociale
Nel 2012, grazie ad una legge regionale, mettono a norma una parte della loro casa e danno avvio ad una Fattoria Sociale. «Abbiamo scelto di lavorare con persone speciali inserite nel nostro mondo agricolo. Ed io ho fatto un corso di 100 ore per la gestione delle fattorie sociali» dice Benedetta.
Adesso nella fattoria sociale sono inseriti Antonio, Sara e Loris. Ma che cosa fanno concretamente? «I lavori in campagna – continua Benedetta – sono veramente tanti e diversificati. C’è da curare l’orto e gli animali da cortile: abbiamo galline, oche, anatre, tacchini… Poi in agosto, settembre e ottobre ovviamente siamo tutti a raccogliere le mele, che è l’attività principale dell’azienda. Antonio, Sara e Loris sono persone da seguire, non sono autonome. Possiamo dare loro compiti semplici, ma poi siamo sempre insieme. Tornando alle attività, ce ne sono davvero molte, ad esempio raccogliamo le immondizie lungo il fiume, insegnando il rispetto dell’ambiente, andiamo al Tessuto Vissuto, il negozio di abiti usati della Cooperativa Il Calabrone, a portare i vestiti che ci donano. Poi naturalmente ci sono le attività di campagna: potare, zappare, curare la corte. Un’altra cosa interessante è il baratto con altre aziende della zona: loro ci danno il latte, o i pomodori, e noi diamo le mele».
La dimensione della famiglia e della relazione
Non grandi numeri ma una dimensione che rimane familiare. «Abbiamo scelto di mantenere una dimensione umana, giusta. Poi, come diceva don Oreste: “Dove andiamo noi, lì anche loro”.
Io mi porto i ragazzi quando vado alla Coldiretti, in banca, in ferramenta, è importantissima la relazione che si crea, il saluto delle altre persone, il sentirsi riconosciuti. Cerchiamo che non siano chiusi nella nostra azienda».
Siamo a settembre – dicevamo – il periodo più intenso e stressante per chi produce mele, perché è il tempo della raccolta. Si riesce a mantenere questo clima positivo agreste anche in questi momenti? «A volte la presenza dei ragazzi ci mette un po’ in difficoltà perché il vortice dell’azienda cozza con la loro lentezza, a volte ci serve per richiamarci che la vita è una mediazione tra le due realtà. Non è facile mediare ma di sicuro loro mi aiutano a capire che la vita non è solo correre e lavoro ma relazione, saluto, attenzione alla persona. Un ambito nel quale questo diventa evidente è quando vengono le persone – che sono di differenti etnie – a raccogliere le mele, i nostri ragazzi stemperano la tensione, e nella loro semplicità aiutano ad appianare la distanza tra le culture».
Proprio come un albero, che trae nutrimento dalla terra, e offre i suoi frutti al mondo, così la fattoria sociale di Aleardo e Benedetta.