La storia di 4 giovani donne che hanno deciso di supportare le proprie connazionali scampate all'inferno della prostituzione. Un modo coraggioso per dire stop alla tratta di donne.
Francis ha 24 anni e sta lavorando in una fabbrica. È contenta del suo lavoro perché «in questo tempo di Covid – racconta con orgoglio - siamo molto fortunate a non aver perso il lavoro anche se il mio sogno nel cassetto è diventare operatrice sanitaria e prendermi cura della salute di chi è più fragile». La pandemia ha cambiato la sua prospettiva di vita e anche per questo, come Evelyn, Roseline e Sonia ha deciso di dedicare il suo tempo libero ad un progetto ambizioso: da ex vittima di tratta diventare mentore, alla pari, ed affiancare altre giovani donne dell’Africa occidentale nel percorso di uscita dalla tratta e nel loro rientro forzato in Italia o in Spagna dai Paesi del nord Europa.
In genere si sente parlare di mèntori alle scuole superiori o all’università: giovani che hanno il ruolo di facilitatori per aiutare i più giovani a capire come integrarsi nell’ambiente scolastico, come relazionarsi con professori e studenti, a chi rivolgersi quando si ha bisogno di recupero scolastico o supporto psicologico o se si vogliono frequentare attività extrascolastiche. Carta vincente: essere della stessa fascia d’età ma aver già percorso lo stesso progetto per poter dare i consigli necessari.
Ma nel caso della tratta a fini sessuali la sfida è ancora più difficile perché non siamo a scuola. Ma si tratta della vita, e del reinserimento nella società del Paese ospitante senza ricadere tra i tentacoli delle mafie che gestiscono il traffico di esseri umani a livello transnazionale. Il rischio di essere intercettate di nuovo là dove si è state sfruttate all’ingresso in Europa sono quindi altissimi.
E rischioso è anche il compito delle connazionali che conoscendo la cultura, la lingua, le tradizioni possono meglio supportare operatori e operatrici antitratta che le accoglieranno nelle strutture della Comunità Papa Giovanni XXIII in Italia e della fondazione Surt in Spagna, ma sono anche più esposte se entrano in contatto con le comunità etniche e le chiese dove sono infiltrati sfruttatori e adescatori. Per questo i loro nomi in questo articolo sono nomi di fantasia.
Sopravissute alla tratta, affiancano le connazionali per uscire dalla prostituzione
D’altra parte nel 2018, oltre agli arrivi via mare, è stato mandato inItalia un terzo dei richiedenti asilo espulsi dalla Germania nei vari Paesi dell'Unione Europea. Nel 2019 le persone dublinanti rientrate in Italia sono state solo nel primo trimestre 710. E il numero è destinato ad aumentare perché il governo tedesco da una parte segue l’accordo di Dublino (attraverso la banca dati europea delle impronte digitali si verifica il Paese del primo ingresso e lì viene rimandato il migrante), dall’altra valuta i Paesi in cui la normativa può meglio tutelare chi chiede protezione perché rischia la vita se torna a casa o se è vittima di sfruttamento.
Le 4 giovani sopravvissute che hanno da poco iniziato il percorso formativo sanno bene che la sfida dell’accoglienza e dell’integrazione, specie per chi ha cercato fortuna anche nel nord Europa senza successo, è molto dura! Per questo per 6 mesi - grazie al progetto SISA, finanziato dal Fondo per l’Asilo, la Migrazione e l’Integrazione dell’Unione Europea, e frutto della collaborazione con le organizzazioni tedesche The Justice Project, Solwodi e Gemeinsam gegen Menschenhandel e.V., Berlin, la fondazione Surt in Spagna e la Comunità Papa Giovanni XXIII in Italia che ha l’obiettivo di creare un network transnazionale per aiutare le vittime di tratta uscite dalla tratta in questi tre Stati europei o dublinanti, saranno dunque affiancate da una psicologa esperta in tratta e rischi di rivittimizzazione, un’esperta in mediazione interculturale nel settore sanitario, sociale e lavorativo, una operatrice antitratta che si occuperà di progetti individuali di accoglienza. Le 4 peer mentors opereranno a Udine, Firenze, Roma e Verona.
Tre le mentori c’è anche Evelyn che ha 21 anni e lavora in una azienda tessile. Da poco è riuscita anche ad ottenere un contratto d’affitto anche se essendo molto giovane, straniera e di colore si è imbattuta in svariate situazioni di discriminazione. Tuttavia è molto motivata a portare avanti questo progetto di aiuto e consigli anche se in gran parte sarà a distanza e tramite videochiamate.
«Quando sono arrivata in Italia avevo solo 15 anni e non mi fidavo di nessuno. Ancora oggi fatico a fidarmi delle persone che mi sono vicine. So che ci vuole molto coraggio a chiedere aiuto e a scegliere la via giusta, sfuggendo a chi ti propone guadagni facili purtroppo attraverso economie illegali o la vendita del corpo. In altre occasioni ho visto che non tutte le donne sfruttate hanno la forza e il coraggio per iniziare un programma di rinascita. Ma dobbiamo mettercela tutta a sostenere chi vuole iniziare una nuova vita anche se dovrà affrontare tante differenze culturali e abitudini diverse da quelle della nostra terra.
Roseline ha invece 35 anni e per lei la motivazione più grande viene dalla preghiera. «Nei giorni più bui della mia vita di strada e anche quando sono rimasta incinta e pensavo di non farcela a sopravvivere, ho capito che le persone che mi stavano aiutando della Comunità Papa Giovanni XXIII pregavano per me e avevano la mia stessa fede. Anche per questo non mi avrebbero mai lasciato sola. Nemmeno in ospedale. E così è stato. Gesù è l’unico di cui mi sono sempre fidata. Se dovessi dire cosa significa per me diventare una peer mentor, direi che è una persona che “ti dà una mano quando stai per cadere”».
Per gli sfruttatori il Covid è una bugia
Sonia ha 24 anni ed è una giovane mamma che si è affezionata all’educatrice che l’ha accolta in Comunità e supportata durante la gravidanza. «È per questo che ho detto di sì a questo progetto. Perché mi sono fidata di voi. Senza una persona di fiducia infatti è difficile dire no alla prostituzione». Sono un migliaio ogni anno le donne – nigeriane, ivoriane, ghanesi ma anche albanesi e bulgare - che attraverso i progetti del sistema anti tratta italiano, riescono a fuggire ai connazionali che le vogliono sfruttare e che, fino a quel momento, erano gli unici che sapevano la loro lingua, che conoscevano la loro famiglia d’origine e che cercavano di convincerle a continuare a prostituirsi in strada o in appartamento dicendo loro che si rischia di essere espulsi dalla polizia perché senza documenti o senza residenza, che le assistenti sociali, se madri, porteranno via i loro figli. E addirittura convincono le loro vittime a non fare tamponi e ancor peggio a non sottoporsi al vaccino, ripetendo che «il coronavirus è una bugia, un’invenzione e che se fai il vaccino, avrai nel sangue iniettate sostanze chimiche che creeranno in futuro danni alla salute. Ma io fra poco inizierò uno stage in un ristorante, non posso perder tempo dietro a questi discorsi anche se sono preoccupata come tanti di fare il vaccino».
Una serie di false informazioni, vere e proprie strategie per tenere irretita la vittima e quindi incapace di cercare una via di fuga e di credere che potrà avere una vita diversa.
Francis non ci crede affatto e cerca di spiegare alle connazionali che lavorano con lei che «non avrebbe senso inventare una pandemia se l’Italia sta attraversando una crisi così grave che mette in ginocchio tante famiglie. Perché tanti Paesi dovrebbero voler la perdita di tanti posti di lavoro? Sarebbe contro i loro interessi! Mi sono data questa spiegazione e per questo prima ci vacciniamo tutti e prima finirà questa terribile pandemia!».
Evelyn lo sa bene. «Sono stata alcune volte anche con le operatrici dell’Unità di strada della Comunità di don Benzi di notte sulle vie della prostituzione – racconta con l’angoscia negli occhi. Ho incontrato ragazze ferite ma anche addestrate a ripetere sempre le stesse frasi “che non hanno bisogno di aiuto, che non hanno paura del Covid e che appena hanno finito di pagare il debito cambieranno vita. Ma molte sembra proprio che non vogliano cambiare vita. Eppure si vede che sono sfinite e stanche di essere usate per il loro corpo. Sanno che è una ingiustizia ma non hanno più la forza per staccarsi dal potere del denaro con cui gli sfruttatori le tengono vincolate per anni, anche dentro gli appartamenti, non solo in strada. O nei bordelli del sud della Francia e della Germania».
Le vittime di tratta e la sfida sanitaria per salvarsi dal Covid
In realtà non sono libere di scegliere la propria vita. Nemmeno possono usare liberamente i soldi che guadagnano. Non hai documenti validi, ma solo richieste di asilo mai portate a termine a meno che non paghi fior di quattrini agli avvocati italiani che hanno ceduto alla “moda” della monetizzazione dei migranti. Non hanno nemmeno la tessera sanitaria, sono senza identità. Invisibili. E sono a rischio ogni giorno per la loro salute fisica e psichica. «Io il vaccino l’ho fatto una settimana fa. So che tra africani girano molti messaggi negativi ma quando sono arrivata in Italia ero piccola e mi hanno fatto tanti vaccini. All’inizio avevo paura poi ho capito che era una opportunità. Ero in un Paese libero, dove l’accesso alle cure è gratuito e comunque garantito a tutti. Da noi invece se non hai soldi, non vai in ospedale e rischi anche di morire a casa senza sapere come sei morto. È successo anche un mio giovane cugino: morire all’improvviso e nemmeno sai che malattia hai. È terribile!».
Ma anche la sfida sanitaria nell’accoglienza e nel percorso di integrazione delle vittime di tratta di rientro dal nord Europa passa dalla fiducia. E per questo tra i compiti delle mèntori ci saranno anche colloqui motivazionali e incontri informativi sulla salute, accanto ai professionisti della Comunità di don Benzi. «Sarebbe molto utile che le informazioni più importanti sulla salute fossero sempre tradotte anche in inglese e altre lingue, perché ci sono regole antiCovid difficili da capire in italiano – denuncia con coraggio Evelyn. - Riguardo al vaccino, io l’ho fatto perché ho avuto l’esempio della mamma di casa famiglia che mi ha accolto. Il nostro compito di mentors sarà difficile ma credo che proprio dare l’esempio sarà la cosa più utile da fare. Con tanta pazienza, e accompagnando queste ragazze dublinanti che si sentono tradite dal Paese in cui sono state sfruttate e anche in quello in cui hanno cercato asilo. Vorrei spiegare che la vita è dura anche in Europa ma più avanti con l’aiuto di un’associazione e di persone che ti vogliono bene può essere molto bella!».