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16 Luglio 2020

Due azioni concrete per radicare la pace

La Pace non è una cosa astratta, va studiata, costruita e radicata nella società. Da questo presupposto prendono spunto due iniziative che viaggiano in direzioni diverse.
Due azioni concrete per radicare la pace
Foto di Archivio Operazione Colomba
Le Scuole di Pace radicano la Pace direttamente sul territorio; il Ministero della Pace punta a coinvolgere gli alti livelli istituzionali.
Sono due le proposte emerse  mercoledì 8 luglio nel webinar Radicare la pace sul territorio. Hanno partecipato all’incontro Federica Bilancioni, Marco Labbate e Nicola Lapenta. Ferdinando Ciani, insegnante, promotore del progetto della Scuola del Gratuito, ha introdotto a moderato i lavori ricordando che le Scuole di Pace promosse da realtà di base sono una realtà presenti in molte località italiane fra le quali Fano, Senigalllia, Marzabotto, Firenze, Bologna ed Ancona con una Università della Pace. Il Ministero della Pace è invece una proposta di don Oreste Benzi portata avanti dalla Comunità Papa Giovanni XXIII.

Radicare la pace sul territorio, i contenuti


Ammalarsi di segregazione sociale

Sulle Scuole di Pace ha aperto Nicola Lapenta, uno di primi caschi bianchi, corpo di interposizione non violenta nelle aree di conflitto, attuale coordinatore del progetto del Ministero della Pace. Lapenta ha sottolineato innanzi tutto come la Pace non si costruisca da soli e che nei conflitti c’è tanta vita. «Abbiamo spesso la tentazione di rifuggire dai conflitti, ma le scuole di pace possono insegnare a superarli e questo ci fa fare dei passi avanti, guadagnare vita ricostruendo i tessuti sociali sempre più lacerati: abbiamo paura di chi arriva, di ammalarci ecc... Se cediamo alle paure finiamo di ammalarci di disgregazione sociale». Altro fine delle scuole di Pace è coltivare la capacità di trasformare le buone prassi in diritti politici, per una politica di qualità, che parta dal bello e dal buono.

Un benessere più grande

Ha proseguito Federica Bilancioni, laureata in storia e redattrice blog Ecopost che si occupa di ricerche sui cambiamenti climatici e sviluppo sostenibile. Attualmente in servizio civile, ha portato la testimonianza di questi mesi su quanto su quanto è stato fatto da lei e da altri giovani. «Vorrei testimoniare come il servizio civile possa essere un modo per portare la cultura della Pace. Partecipavo a un progetto di motilità per persone con disabilità fisica o psichica, ma quando Il progetto è stato fermato e rivisto sono passata a un progetto con persone con fragilità psichica», ha raccontato. Altri sono stati in Caritas a preparare e portare pacchi di cibo e vestiti alle famiglie, hanno tenuto lezioni on-line ai bambini stranieri, altri ancora hanno prestato assistenza a distanza persone sole o emarginate. «Con la pandemia alcune debolezze si sono accentuate e siamo arrivati dove lo Stato non poteva. Il Servizio Civile costa, ma porta a un benessere collettivo più grande Purtroppo sono stati confermati i tagli al bilancio. Le scuole di Pace — ha sottolineato — possono aiutare a conoscere come si può declinare la Pace anche in queste cose».

Togliere la patina di utopia

Terzo intervento quello di Marco Labbate docente di storia dei partiti e movimenti politici, autore di Un’altra patria, l’obiezione di coscienza nell’Italia Repubblicana, che ha sottolineato come sia opportuno che le scuole di Pace operino una revisione. «Negli ultimi vent’anni sembra che la storia si andata più lenta». Ha affermato la validità dell’esperienza delle scuole e ne ha evidenziato i punti di forza: continuano una esperienza lunga, tolgono la patina di utopia e la radicano nel concreto. «La Pace non si improvvisa, c’è una storia di una lunga ricerca sulla Pace», ha dichiarato. Le Scuole di Pace arrivano alla fine di un percorso di radicamento nel territorio, ultimo anello della ricerca sulla Pace. Quello nelle Marche è iniziato negli anni ’90 per arrivare all’Università della Pace nel 2007 sull’idea che lo studio dovesse durare a lungo, anche per chi la praticava. Si possono però segnalare due criticità. «Occorre avvicinare chi non è predisposto, portare le scuole di Pace dove non è facile, non solo nei luoghi della cultura, si rischia di non avvicinare chi è estraneo a questo modo di pensare. Occorre trovare anche altri modi di comunicare, la lezione frontale non basta più». Secondo elemento è stabilire un legame forte con la Scuola, va pensato come momento per ripensare l’insegnamento curricolare. A volte il relatore della Scuola di Pace fa un intervento anche a scuola, «Ma va pensato un inserimento nel programma e quindi affiancare le scuole per introdurre la Pace nel curriculum». Occorre anche connettere le scuole di Pace al servizio civile, riprendere quell’intuizione che fu dei primi obiettori di coscienza di legare il servizio civile alle fragilità. Si può implementare di più la formazione alla gestione dei conflitti e alla salvaguardia del creato.

Un ministero della Pace

Si è passati poi a rispondere alla domanda se un Ministero della Pace possa rappresentare uno strumento valido per un cambiamento culturale nel modo di intendere la Pace a livello di cittadinanza politica.
Nicola Lapenta ha risposto elencando quello che può essere il Ministero per smentire l’idea che la Pace sia qualcosa di poco definito. Sono state definite sei aree di interesse.
  1. Promozione di politiche di Pace, curando che ogni norma promuova i diritti umani.
  2. Il disarmo con il monitoraggio degli accordi internazionali.
  3. La difesa civile non armata non violenta a cui fanno riferimento il Servizio Civile e i corpi civili di Pace che intervengono nei conflitti.
  4. Prevenzione e riduzione dell’odio sociale, promozione di comportamenti e linguaggi liberi dall’odio.
  5. Qualificare le politiche di istruzione che non possono essere solo delle scuole di Pace, un’attività di pochi.
  6. In ultimo la mediazione sociale, riconciliazione e giustizia riparativa: chi viene recluso non può esprimere il proprio potenziale positivo, che sbaglia deve essere in grado di esprimere il bene che c’è in lui.
«Se riusciamo immaginare un mondo dove queste cose sono dovere, il nostro modo di vivere la Pace non è più aleatorio. Ogni Euro investito nel Servizio Civile produce molto di più in termini economici», ha concluso.

Sostituire la cultura della guerra

Federica Bilancioni anche qui ha riportato il parere dei coetanei: ora sembra un costo aggiuntivo inutile, è ovvio che costi, ma sono spese che rendono nel lungo termine in termini di meno delinquenza, più solidarietà, più integrazione. In momenti di crisi sono valori che fanno le differenze. Ha poi portato poi degli esempi dei legami fra Pace e politiche ambientali. «Pochi pensano che i cambiamenti climatici siano alla base dei conflitti. Ad esempio in Siria anche la siccità è fra i fattori che hanno alimentato il conflitto. Sappiamo che flussi dei migranti in Europa per il 90% arrivano dal Shael che aveva come fonte idrica il lago Ciad ridotto dell’80% negli ultimi quaranta anni». Un altro esempio: «Nelle vicende Reggeni e Zaky la nostra dipendenza energetica dall’Egitto ci impedisce di far rispettare i diritti umani». «A proposito di scuola — ha detto — la proposta di educazione ambientale è buona, ma va integrata nella Pace. Dobbiamo sostituire la cultura della guerra con quella di Pace».

Linguaggio indizio del cambiamento

Marco Labbate ha sottolineato un rischio: «Il Ministero può diventare efficace solo dentro una cultura della Pace, altrimenti resta marginale, può essere fagocitato da altri ministeri su materie concorrenti. Oggi è importante creare il retroterra culturale». Oggi è impossibile disgiungere la Pace dal clima e dalle disuguaglianze. Difficile immaginare un passaggio alla Pace nella disuguaglianza, senza attuare pienamente l’articolo 3 della Costituzione.
Importante che se ne parli come indizio di un cambiamento. Pensiamo al cambiamento di intitolazione da Ministero della Guerra a quello della Difesa che recepisce lo spirito dell’articolo 11 della Costituzione. L’dea che la Pace abbia bisogno di un ministero fa pensare che abbia servano politiche che la favoriscano. Diamo importanza alla Pace a partire da un cambiamento del linguaggio. «Chiedo anche — ha concluso — se non possa esser proposto un ministero a livello di Unione Europea, nel luogo dove gli stati si confrontano per cercare una politica di Pace comune».

Ci sono state poi alcuni approfondimenti stimolati da domande poste dai partecipanti on-line. Nicola Lapenta ha detto che il rischio che il ministero diventi bacino di interessi privati è reale, ma che è possibile evitarlo. Ha poi trovato interessante l’osservazione secondo cui i contenuti sono già tutti nella Costituzione: «Ci sono le premesse per una Pace positiva, olistica, multidimensionale».

Ferdinando Ciani ha richiamato come la Scuola del Gratuito abbia già in sé l’educazione alla Pace. «Cerca di realizzare una scuola che sia costruttrice di relazioni, dove la gratuità la fa da padrona. Non funziona con premi o motivazioni esterne, fa sentire parte di una comunità».

Federica Bilancioni ha confermato come sia importante formare gli educatori a non trascurare l’educazione all’amore e alla tolleranza del diverso: «Il Ministero e le Scuole della pace potrebbero offrire strutture per la formazione degli insegnanti». Marco Labbate si è detto d’accordo con questa necessità: «bisogna però agire anche sul contesto: è difficile attuare percorsi personalizzati anche di integrazioni in aule affollate».

Ultima precisazione di Ferdinando Ciani: non parliamo di educare a qualcosa, ma di educare la Pace. Perché la Pace è dentro di noi.