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12 Luglio 2024
Ultima modifica: 12 Luglio 2024 ore 09:40

Recidiva e suicidi in carcere. Hassan e il suo percorso di rinascita

Il progetto CEC della Comunità Papa Giovanni XIII. Un'alternativa al carcere che ridona speranza.
Recidiva e suicidi in carcere. Hassan e il suo percorso di rinascita
Foto di hasan-almasi-unsplashok
L'attuale governo ha da poco approvato un decreto-legge sulle carceri, sottolineando l'importanza delle pene alternative per umanizzare il sistema carcerario, riconoscendo il ruolo delle comunità e del mondo del terzo settore nel percorso rieducativo del detenuto.

Altissima recidiva e sempre più suicidi in carcere: il progetto CEC dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII offre una pena alternativa al carcere che ridona la speranza.

Secondo il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL), il 68.7 % dei detenuti torna a delinquere (circa 2 su 3) e ogni tre giorni e mezzo un detenuto sceglie di togliersi la vita.

In questo panorama drammatico, la Comunità Papa Giovanni xXIII propone il progetto CEC (Comunità Educante con i carcerati), percorso che punta alla rieducazione del detenuto e al suo reinserimento sicuro nella società.

Hassan svolge da più di un anno il suo percorso rieducativo presso Casa Betania, una delle case di accoglienza del progetto CEC . Prima della reclusione, una storia di violenza verbale e fisica contro la moglie, che è riuscita a denunciare. Ora fa parte del CSSS (Consiglio sicurezza solidarietà sincerità), cioè del gruppo dei “recuperandi” incaricati di diverse responsabilità all'interno della struttura rieducativa, e tutti gli riconoscono dedizione agli altri e capacità direzionali.
Dopo il primo periodo di detenzione, ha iniziato questo nuovo cammino, svolto in strutture senza misure restrittive, con la presenza di volontari formati, perché possa fra qualche mese reinserirsi nella società avendo preso coscienza del suo errore, ricominciando così, un’altra vita.

Il Male ha preso il sopravvento sul Bene, facendoti cadere nell'errore. Spesso diciamo che "il male cresce nelle ferite del cuore dell'uomo": qual è la tua ferita?

«Non sono d'accordo che il male abbia preso il sopravvento sul bene: è l'ingiusto che ha preso il sopravvento sul giusto. Il male per me è angoscia, tormento, cattive abitudini, è una passione che dipende da idee inadeguate, ed in questo io non mi ritrovo. Quel che è accaduto è che non riesco a controllare la rabbia e la collera, e questo mi ha portato ad un comportamento aggressivo che sono conscio essere psicologicamente devastante.»

Riesci, guardando indietro, a risalire, non tanto alle colpe o responsabilità, ma alle condizioni che possono averti condotto allo sbaglio? Ci parli anche della tua famiglia?

«Come per la prima domanda, io voglio vedere le cose diversamente, non mi piace guardare indietro. Ho bisogno solo di preoccuparmi del modo migliore per avanzare e, proprio per questo, voglio solo guardare in avanti: solo così posso vedere un volto che conosco quando mi guardo allo specchio, mentre l’altra parte di me deve rimanere indietro, nel passato. Per quanto riguarda la famiglia, è il posto dove mi sento al sicuro, amato: lì ci sono affetto, relazioni sicure, un’ottima armonia. Mi ritengo veramente una persona fortunata perché ho una bella famiglia, grande ed unita, composta dai miei genitori e sei fratelli, due sorelle e quattro. Mio padre è una persona speciale e forte; non ci ha mai fatto mancare nulla. La primogenita si chiama Sakina, ha quattro figli, lavora in banca e vive a Parigi. Il secondo è Mohamed, ingegnere meccanico, convive senza figli e vive a Tolosa. Il terzo è Houcine, addestratore nella legione francese ed anche lui convive senza figli. Il quarto figlio, invece, sono io. Successivamente, il quinto fratello è Hicham, chef sposato e con due figli, che vive a Parigi. Nadia, invece, è l’ultima della famiglia; impiegata in banca, con due figli, che vive in Canada. E tutti noi, quasi ogni anno, ci ritroviamo insieme in Marocco

L’esperienza del carcere ti ha aiutato? Come hai vissuto i giorni dentro?

«L’unica cosa positiva in carcere è il tempo, quello che non ho mai avuto fuori, il tempo per riflettere su tutto quello che mi ha portato a cadere così in basso: questa è l’unica cosa che mi ha aiutato il mio vissuto dentro. All’inizio è stato molto difficile, mi sono sentito distrutto: dopo tutta una vita di lavoro, ti trovi dentro, per la prima volta, senza fare nulla. Questo far nulla è stata la punizione peggiore: per tutto il tempo me ne stavo per conto mio, nella mia cella a dormire ed a leggere; i primi mesi, addirittura, non uscivo neanche all’aria o al campo sportivo. La convivenza stessa con gli altri detenuti e stare dentro senza l’uso di psicofarmaci, è molto difficile.»

Come sta andando l’esperienza comunitaria? Quali sono le difficoltà che hai dovuto superare?

«L’esperienza comunitaria è stata e sarà sempre positiva. La cosa bella è proprio la vita comunitaria, far parte di questo insieme di persone di varie età e religioni, quasi tutti uniti tra loro, che si confrontano, mangiando insieme. È l’opposto della vita fuori, fatta di individualismo che prevale sul bene comune. Non ho avuto nessuna difficoltà, anche e soprattutto grazie ai rapporti umani tra i dirigenti e recuperandi.»

Quali sono gli strumenti del progetto C.E.C. che ti hanno aiutato nell’affrontare i tuoi problemi?

«Tutti gli strumenti proposti mi hanno aiutato perché sono come una catena: ognuno completa l’altro. Da quando sono arrivato in comunità ho avuto attenzione nel rispettare le regole e farle rispettare dagli altri. Il Resoconto e la Fraternità sono strumenti che mi hanno aiutato a conoscere sia me stesso che gli altri.»

Come hai vissuto la presenza di persone disabili in casa?

«All’inizio è stata una convivenza molto difficile, soprattutto con Marino che urla giorno e notte. Ma poi, con il tempo, ti abitui a prendere tutto alla leggera. Gli altri, invece, sono eccezionali, ho un bel rapporto con tutti e mi mancheranno di sicuro.»

Come hai vissuto il rapporto con Dio, l’Assoluto, durante l’espiazione della pena?

«Io sono sempre stato credente, come i miei genitori. Quello con Dio è un rapporto sano, anche se da quasi un anno e mezzo non pratico più, ma sono e sarò sempre credente.»

Persone con il vissuto come il tuo, spesso hanno anche tanta rabbia e devono, oltre che a chiedere perdono per il male fatto, anche perdonare chi a te hanno fatto del male. Cosa puoi dirci al riguardo?

«Come prima cosa, una persona deve riconoscere il proprio errore e dimostrare la voglia di rimediare. Il fatto di avere capito il proprio errore, però, non deve essere usato come una tecnica di manipolazione volontaria per ottenere il proprio scopo. Chiedere perdono, chiedere scusa o esprimere il proprio dispiacere è sempre un bene per tutti, per chi ha sbagliato e per chi ha subito.»

Come vivi? Con quali pensieri guardi il tuo passato, tendi a rimuginare? Ti senti sbagliato, un fallito? O redento?

«Devo vivere per forza per andare avanti. A dire la verità, non voglio proprio guardare indietro nel passato né pensarci, ma solo dimenticare il passato per vivere al meglio il futuro. Rimpiangere i propri errori ha poco senso, visto che il passato non può essere cambiato, anche se il problema non si dimenticherà mai. Non mi sento affatto un fallito o un perdente: ho alle mie spalle tutta una squadra a sostenermi, composta dalla mia famiglia, dagli amici, dal mio datore di lavoro, dalla mia futura moglie e dai miei figli, che mi danno un motivo in più per cui non posso fallire.»

Come stai oggi? Come ti guardi? Ti senti riconciliato?

«Non posso dire di stare bene oggi: sono ancora lontano dai miei figli e dalla mia famiglia, privo di libertà. Per adesso vivo per andare avanti.»

Come vedi il tuo futuro? Quali sono i tuoi desideri?

«Ho una buona visione del mio futuro: ho tanta fiducia in me stesso e sono più che sicuro che riuscirò nella vita. Ho tanta voglia di fare bene, recuperare questi tre anni e mezzo, stare con la mia famiglia, con i miei figli, tornare con il mio primo amore… sono questi i miei desideri.»