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30 Gennaio 2025

Santa Giacinta Marescotti

Il 30 gennaio la Chiesa ricorda una terziaria francescana che non voleva entrare in convento, ma poi si convertì diventando santa
Santa Giacinta Marescotti
«Iddio, essendo padre amoroso, non suole caricare la soma più di quello che possono sopportare le spalle»
Santa Giacinta nacque col nome di Clarice. Nata dal conte Marcantonio Marescotti e da Ottavia Orsini agli inizi del 1600, era di famiglia nobile. Clarice era una bella giovane che sognava di sposarsi con il marchese Paolo Capizucchi. Purtroppo suo padre diede in moglie a costui la sorella minore Ortensia. Clarice ebbe una incontenibile reazione di ribellione. Se la prese con tutto e con tutti, scontenta e intrattabile: «Mostravasi tanto ritrosa ed acerba che da pochi era amata e da molti fuggita», scrisse il suo primo biografo. Il padre la costrinse a entrare in convento, tra le francescane di Viterbo, dove già si trovava Ginevra, la sorella maggiore. Clarice prese il nome di Giacinta, ma senza farsi monaca: scelse lo stato di terziaria francescana, che non comportava stretta clausura.

Sognava il matrimonio, ma fu costretta ad entrare in convento

La giovane sognava il matrimonio, non il convento: subì l’imposizione e per i 15 anni successivi condusse una vita monastica mondana. Con una ricca dote paterna di 600 scudi e una rendita personale di 40 scudi all’anno fece arredare con lusso le due stanze che le erano destinate, indossò tonache di stoffa finissima, pretendeva pasti speciali e svaghi non certo conventuali, visse «in abito religioso, ma con spirito secolaresco», come scrisse un suo biografo.
A trent’anni, dopo una malattia che la costrinse a letto vari mesi, e dopo la morte del fratello Galeazzo, della sorella Ortensia e della madre Ottavia, iniziò in lei una profonda trasformazione interiore.
Decise di non lasciarsi più determinare dalla rabbia e dalla delusione che la bloccavano nel passato, ma scelse di vivere il presente e di meditare sulla passione del Signore. Avvinta dall’amore che spinse Cristo a morire e risorgere per la salvezza di ogni uomo, ripeteva: «Gesù, il mio amore, è stato crocifisso». Confessò pubblicamente i suoi peccati davanti alla comunità e decise di vivere in base alle regole monastiche.
Dalle due camerette raffinate passò a una cella derelitta per vivere di privazioni.
Da parte delle consorelle ricevette alcune umiliazioni, convinte che fosse un’ipocrita. Giacinta convertì la superbia in pazienza, l’ambizione in umiltà. Venne nominata maestra delle novizie e divenne ricercata e apprezzata madre spirituale dotata di carisma e buon senso. Diceva: «Per piccoli difetti o mancanze niuno si turbi o si rattristi, ché siamo di carne e non di marmo...».
Fu organizzatrice di istituti assistenziali come quello detto dei “Sacconi” (dal sacco che i confratelli indossavano nel loro servizio) che aiutava poveri, malati e detenuti, e che si perpetuerà fino al XX secolo, e quello degli Oblati di Maria, chiamati a servire gli anziani.
Quando morì, il 30 gennaio 1640 a Viterbo, la sua fama di santità era così diffusa che si dovette sostituire tre volte il suo abito durante la veglia perché i fedeli continuavano a tagliarne dei pezzi da tenere come reliquie. La liturgia la ricorda il 30 gennaio.
Giacinta ci insegna che l’effimero e la vanità, che normalmente occupano le profondità del nostro essere lasciandoci in una insoddisfazione e inquietudine continua, possono essere superati solo quando ci apriamo all’amore di Dio. Dice bene Sant’Agostino: «Signore ci hai fatti per Te e il nostro cuore è inquieto fino a che non riposa in Te»!