Sergio Zavoli. Il ricordo: «Quel bambino finirà sui giornali!»
Si è spento un grande che sapeva essere semplice. Ha fatto la storia del giornalismo stampato e televisivo del Novecento. Ecco cosa ci aveva raccontato.
Già da bambino giocava a ricostruire su un grande foglio di carta la prima pagina del Corriere. Una vita dedicata a raccontare i fatti, e a capire ciò che vi sta dietro. Senza paura di affrontare temi complessi e delicati come la fede, la scuola, il terrorismo, con inchieste che hanno fatto la storia del nostro giornalismo.
Oggi a Roma i funerali di Sergio Zavoli, maestro del giornalismo televisivo morto all'età di 96 anni. Ravennate di nascita ma riminese di adozione, tanto che proprio a Rimini ha chiesto di essere seppellito, vicino all'amico Federico Fellini. Zavoli era unito anche a don Oreste Benzi da un rapporto di stima e amicizia. Nel giugno del 2004 aveva partecipato con il sacerdote riminese ad un incontro pubblico organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII a Pellegrina di Isola della Scala in provincia di Verona, dove sarebbe poi sorta una casa di pronta accoglienza.
Nel 2005 invece lo abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del suo libro di poesie, L’orlo delle cose.
Un’intervista che mette in luce l’animo di questo grande giornalista che amava scavare dentro l’uomo.
È sempre difficile intervistare un giornalista. Soprattutto quando a rispondere è uno come Sergio Zavoli che ha segnato la storia del giornalismo stampato e televisivo del Novecento. Ma i veri grandi sono quelli che sanno anche essere semplici. E lui aveva accettato senza alcuna difficoltà di rispondere alle nostre domande. Forse anche per l’amicizia e la stima che da molti anni lo legava a don Benzi.
Un giornalista dall’immagine austera, rigorosa, che nasconde un animo di poeta.
In questa intervista ci racconta di sé e della professione a cui si è dedicato con passione per tutta la sua vita, attento lettore dei fatti, osservatore dell’uomo senza perdere di vista i valori fondamentali della vita. Ve la riproponiamo.
Giornalista per caso o per vocazione?
«Volevo semplicemente fare il giornalista. Non mi interessava, con altrettanta sicurezza, fare altro. Quanto alla vocazione, la lascerei alle scelte dello spirito. Al caso, ma credo di no, quelle non fatte.»
Che ruolo ha giocato la sua famiglia di origine nelle sue scelte professionali?
«La mia famiglia di origine era di una modestia bellissima, educata, quasi impercettibile. Tant’è che ho creduto, per molti anni, di essere nato in una famiglia importante, anche visibilmente. Mia madre mi ha raccontato che quando ancora non sapevo leggere né scrivere chiedevo a mio padre un grande foglio di carta bianca, sul quale ricostruivo, copiandola per quanto potevo, la prima pagina del Corriere. Erano dei segni, non delle parole. Più o meno simili, e disposti alla meglio rispetto all’impaginazione dei grafici. Qualcuno, un po’ a spanne, l’ha giudicato una premonizione!»
La profezia di suo padre: «Questo bambino finirà sui giornali!»
«Un'altra cosa legata ai giornali è questa: un giorno - forse non avevo la coscienza tranquilla - la mamma mi raccontò che il babbo le aveva detto: "Questo bambino finirà sui giornali!". Poiché mi sembrò inverosimile che potessi finirvi per qualcosa di buono, pensai, spontaneamente, a una profezia sinistra. Non nego di averci pensato per molto tempo, fino a quando, tornato sull'argomento non ricordo perché, raccontai a mia madre come fossi rimasto segnato da quel segreto: e lei rise, rise a lungo con un’aria bambina, spiegandomi che il babbo aveva inteso sul serio immaginare, per me, una cosa buona!
E qui, ormai in vena di confidenze, le dirò che quel fraintendimento credo mi sia servito, nell’inconscio, chissà, a tenermi lontano da qualche tagliola.»
Lei è stato giornalista radiofonico, inviato speciale, autore di grandi inchieste, direttore di un telegiornale, di un giornale-radio, di un quotidiano, poi presidente della Rai, opinionista e così via. E ama definirsi un cronista. Perché?
«Cronista non è quella dimensione minore, addirittura minima, del nostro mestiere che in genere si crede. Montanelli è stato un cronista, prima di essere tutto il resto. Una volta mi disse: "Io ho dato il meglio raccontando i fatti; quando li ho commentati sono stato al di sotto di quel talento, se proprio vogliamo chiamarlo così".»
Lei, oltre che giornalista-scrittore e poeta (è uscito da poco, con Mondadori, il suo terzo libro di poesia, L’orlo delle cose) è ormai uno storico personaggio televisivo: come giudica la televisione di oggi?
«La TV è un'immagine della società che la esprime. È il nostro specchio quotidiano. A quell'immagine contribuiamo tutti, chi più chi meno. Siamo quello che pensiamo e facciamo, cioè accettiamo o rifiutiamo di essere e di fare. Alla fine, in ogni caso, vince la legge dei grandi numeri. Quasi sempre la più grossolana e, purtroppo, la meno contestabile!»
Zavoli e la fede
Il fatto di essere credente ha inciso sul suo modo di svolgere la professione?
«Mi ha aiutato a capire meglio uomini e problemi, a essere più tollerante e più equo, a confrontarmi non solo con la realtà ma anche con la misericordia. Più in generale, con i valori. Almeno lo spero!»
Tra i molti personaggi che ha incontrato, uno che le ha lasciato il segno.
«È stato una persona e, insieme, un personaggio: Federico Fellini, l'amico che più rimpiango, l'intelligenza e la visionarietà più emozionanti da me conosciuti. Ma anche la comprensione, fino alla pietà, di fronte a una vita che non indagava per curiosità, ma per amore.»
Zavoli e l'impegno politico
Perché ha scelto di entrare in politica?
«Perché la politica rappresentava la continuazione, sul posto, di tutte le cose che dovevo limitarmi a immaginare. E poi perché, quando la politica ti delude, proprio quello è il momento di entrarvi e di farla.»
Ma la politica, si sa, è l’arte della mediazione e per ottenere dei risultati bisogna cedere a qualche compromesso.
«La politica è l'arte di ciò che si può fare per uscirne insieme, come diceva don Milani, cioè in nome di un interesse generale. Mi ha spesso deluso, a volte anche amareggiato, ma continuo a credere, e a dire, che quanto più ci dispiace tanto più dovremmo, per ciò stesso, coglierne l'importanza, avvertirne il bisogno.»
Corrente politica e fede: riesce a farle andare a braccetto?
«Una volta Sergio Saviane, grande fustigatore dei personaggi televisivi, inventore dell'espressione mezzo-busto per indicare il giornalista del telegiornale, dopo avere visto Viaggio intorno all'uomo mi chiamò "Socialista di Dio", come se tra le due fedi vi fosse una tale contraddizione da doverne cavare una sorta di paradosso. Ricordo che lo ringraziai. Feci di quel piccolo sberleffo il titolo di un libro - Socialista di Dio, appunto - che mi portò fortuna perché, dopo essere andato in finale tre volte, vinsi il Premio Bancarella.»
Perché il libro con Olga D'Antona Così raro, così perduto. Una storia di terrorismo, un racconto personale?
«Perché è la storia di una tragedia italiana, vissuta da questa donna con un coraggio e una dignità degni di una prova saggistica, o letteraria, non di un libro-intervista soltanto.»
La guerra ultima delle scelte
Che legame c'è tra il terrorismo degli anni di piombo e quello attuale?
«C'è lo stesso delirio ideologico, la stessa struttura linguistica, la stessa modalità operativa. Ma sono due realtà separate, e si stenta a coglierne la continuità.»
Lei si è impegnato in prima persona per la liberazione, in particolare, di Simona Pari, riminese come lei. Qual è il suo giudizio sul conflitto in Iraq e sui conflitti in generale?
«La guerra è l'ultima delle scelte, anche perché non sappiamo se sarà la soluzione. E la Storia ci insegna che quasi sempre non lo è. Da quando esistono rispettabili convenzioni diplomatiche sono stati sottoscritti seimila trattati di pace, il che significa avere combattuto almeno altrettante guerre. Ma dopo ogni battaglia, scrive Aurobindo, filosofo e poeta indiano, le farfalle presenti sulla Terra dal giorno della creazione hanno continuato a posarsi, indifferentemente, sui vinti uccisi e sui vincitori addormentati. È una metafora per dire della debolezza della natura umana e della neutralità della storia di fronte alla più crudele, e quasi sempre inutile, delle nostre scelte.»
«Purché la morte mi colga vivo»
Alla sua non più giovanissima età, se così ci permette di dire, continua a ricevere premi e riconoscimenti per il suo impegno, e a girare l'Italia e non solo. Cosa consiglierebbe a un anziano per vivere in pienezza la sua vecchiaia?
«Viverla, prima di tutto. Non sentirsela addosso come una quantità di privazioni cui bisogna rassegnarsi. Giuseppe Ungaretti scrisse: "Purché la morte mi colga vivo!".»
Uno dei suoi libri si intitola Il dolore inutile. Può, in sintesi, spiegarci la sua posizione su una tematica così importante?
«È la denuncia, su scala internazionale, di un reato che si compie ogni giorno sui malati: quello di lasciarli nel dolore, nel dolore inutile. Il nostro Paese, fino a ieri, era al 54° posto tra quelli che fanno ricorso agli oppioidi, cominciando dalla morfina, per uso analgesico. Vecchi pregiudizi, anche religiosi, hanno tenuto questi innocenti e provvidi presidi tra le proibizioni decretate da una medicina pigra, non aggiornata, poco avveduta. Oggi, molto sta cambiando. A cominciare dall’atteggiamento della Chiesa. Solo ora si sta parlando di "ospedale senza dolore". Specie quello inutile, spero.»
A livello mondiale, europeo e anche italiano, fa sempre più discutere il tema dell'eutanasia. Ci può dire la sua posizione su questo argomento?
«L'eutanasia è contro il mistero e la sacralità della vita. Ecco perché vivere non deve diventare una feroce contraddizione con la misericordia e il rispetto della dignità umana.»
Rimini è considerata la città dello "sballo" e del divertimento, e al tempo stesso ha dato i natali a molte esperienze e personaggi straordinari. Qual è il legame con la sua città?
«È un legame speciale, fortissimo, come quello delle adozioni. A Ravenna sono nato, ho i miei morti, tanti ricordi, molti amici. A Rimini sono cresciuto e ho la comunità del presente. Sono figlio di entrambe, ma è stato qui, a Rimini, che i legami si sono stretti.»
Il giornalista e gli affetti
Come è riuscito a conciliare il suo lavoro con la famiglia?
«Non ci sono riuscito. È un debito che, temo, non riuscirò a pagare sino in fondo.»
Giornalista, attento lettore dei fatti. Con sua figlia Valentina sente di essere riuscito ad essere attento ai suoi bisogni, ai suoi desideri?
«La risposta precedente, nella sua freddezza, è la risposta alle cose calde che lei evoca. Ho molte nostalgie, dei rimorsi e, spero, qualche discolpa.»
Che posto ha la dimensione spirituale nella sua vita?
«Il posto dello spirito non è di più, né di meno, rispetto a quello della mente.
Non riesco a immaginare un pensiero che non riceva alimento, e grazia, dalla sua dimensione spirituale. Sant’Agostino, però, diceva di più: "Che non si può credere se prima non si è pensato di credere", "Credere assentendo", ha aggiunto. Cioè facendo partecipare alla fede la ragione.»
Il sogno che le è rimasto nel cassetto?
«Il sogno, in generale.»
Se potesse tornare indietro c'è qualcosa che cancellerebbe o rifarebbe?
«La vita non la rimetti a posto, se non nel ricordo e nell'anima.»
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Chi era Sergio Zavoli
Era nato a Ravenna nel 1923, ma era cresciuto a Rimini, città di cui è cittadino onorario. Giornalista alla radio dal 1947 al 1962. È stato direttore del GR1, direttore del quotidiano napoletano Il Mattino, presidente della RAI tra il 1980 ed il 1986. Presidente della Commissione Rai dal 2009 al 2013. Senatore dal 2001 al 2018.
Ha realizzato numerosi programmi di grande successo tra cui, Nascita di una dittatura(1972), Viaggio intorno all’uomo (1987), La notte della Repubblica (1989), Viaggio nel Sud (1992), Nostra padrona televisione (1994), Credere non credere (1995), Viaggio nella giustizia (1996), C’era una volta la prima Repubblica (1998), Viaggio nella scuola (2001).
La sua attività di scrittore gli ha portato importanti riconoscimenti: (Premio Bancarella 1981) per Socialista di Dio; (Premio Basilicata 1987) per Romanza; (Premio di poesia Alfonso Gatto 1995) con Un cauto guardare.
Ha dedicato libri a temi della salute: I volti della mente, (Marsilio, 1997); La lunga vita, (Mondadori 1998); e per Garzanti Dossier cancro (1999); Il dolore inutile. La pena in più del malato (2002).
Poi ancora Diario di un cronista. Lungo viaggio nella memoria (Mondadori 2003); del 2004 Così raro, così perduto. Una storia di terrorismo, un racconto personale scritto con Olga D'Antona(Mondadori) e L'orlo delle cose (Mondadori).
* L'intervista è stata realizzata con la collaborazione di Roberto Fea