In una sua intervista in vista del 50° anniversario della sua ordinazione, don Benzi svela i passaggi più significativi della propria vocazione sacerdotale.
Il 29 giugno 2024 ricorre il 75° anniversario dell’ordinazione sacerdotale di don Oreste Benzi, il prete dalla tonaca lisa, infaticabile apostolo della carità.
Aveva solo 12 anni il giovane Oreste, nato a Rimini nel 1925, quando rispose alla sua chiamata interiore entrando in seminario. Un percorso tutt'altro che semplice, segnato dagli sconvolgimenti della Seconda Guerra Mondiale che costrinsero il seminario a spostarsi da Rimini a Bologna e poi a Montefiore Conca (PU), dove completò i suoi studi teologici.
Finalmente,
il 29 giugno 1949, giorno della festa dei Santi Pietro e Paolo, Oreste Benzi venne ordinato sacerdote dal vescovo di Rimini, monsignor Luigi Santa.
Questo evento segna l'inizio del suo ministero sacerdotale, che avrà un impatto significativo sulla comunità locale e non solo. Pochi giorni dopo la sua ordinazione, il 5 luglio 1949, Benzi assume il ruolo di cappellano nella parrocchia di San Nicolò a Rimini. Qui rimane per 16 mesi, dedicandosi con particolare attenzione ai giovani.
Il suo impegno verso le nuove generazioni diventa una delle caratteristiche distintive del suo ministero, influenzando positivamente la vita di molti ragazzi e ragazze della parrocchia.
La sua vita sacerdotale sarà segnata da una
profonda attenzione verso le fragilità e le periferie esistenziali della società fino al 2 novembre 2007, giorno in cui i suoi occhi si aprirono all’infinito di Dio.
Di seguito riproponiamo parte di un’intervista inserita nel
libro “Ribellatevi”, di Sempre Editore, raccolta in occasione del 50° anniversario sacerdotale, celebrato nel 1999.
Quando hai sentito la vocazione al sacerdozio?
«Facevo la seconda elementare. Avevamo una maestra che aveva una capacità quasi magnetica di parlare, di intrattenerci. Un giorno ci parlò dei pionieri, degli scienziati e dei preti. Sapeva creare degli orizzonti molto vasti, senza limiti. Ci faceva sognare ed i veri maestri sono proprio quelli capaci di far sognare. Quel giorno sono andato a casa e ho detto: “Mamma, io mi faccio prete!”, e da quella volta non ho più cambiato. Appena possibile sono entrato in seminario, avevo 11 anni, ma i miei non avevano i soldi per pagare la retta. Allora mio babbo e mia mamma andarono a chiedere l’elemosina, un gesto che significa avere il massimo della fede, chiedere aiuto nella forma più umiliante. Questo mi ha aiutato molto, in seguito, quando anch’io sono andato a chiedere l’elemosina per fare la casa per i giovani “Madonna delle Vette”. I genitori aprono alla vita i figli con i loro gesti di vita, aprono i loro orizzonti e li aiutano a sfidare l’impossibile.»
Come ricordi gli anni in seminario?
«Prima di tutto ricordo il nostro padre spirituale, un grande maestro che ci educava, ci guidava alla purezza, che non riguarda solo il sesso ma un cammino nella purezza di Dio. M’ha fatto un bene enorme, per tutta l’esistenza. Poi un altro da ricordare è il mio vice rettore, monsignor Emilio Pasolini. Era una persona che spendeva tutta la vita per le anime, per l’apostolato. Il leitmotiv della sua esistenza era “strapazzarsi per le anime”; cioè: se tu ami non ti misuri. Rendeva il sacerdozio un’avventura gioiosa ma estremamente concreta. Dalla quarta ginnasio in poi sono stato sempre “prefetto”, che vuol dire responsabile di un gruppo di seminaristi, perciò non ho potuto vivere l’essere semplice seminarista, ho vissuto sempre come un responsabile degli altri.»
C’è qualche fatto che ti ha particolarmente colpito?
«Frequentavo la prima liceo nel seminario di Bologna che poi è stato chiuso con la guerra. In terza liceo c’era un seminarista che per noi era di esempio grandissimo per la sua vita di preghiera, di amore. Un giorno è salito su una scaletta, un metro di altezza, per affiggere un’immagine del Sacro Cuore. Attaccata l’immagine, si è sbilanciato ed è caduto all’indietro battendo la nuca e morendo sul colpo. In noi ha creato una grande impressione. Il padre spirituale, parlandoci dopo questo fatto, ci ha raccontato che da tempo il seminarista gli chiedeva di offrire la sua vita per i suoi compagni di classe, ma lui gli aveva detto sempre di no. Il giorno prima di morire, però, il ragazzo gli aveva rinnovato la richiesta e lui, vedendo questa insistenza che si prolungava da tempo, aveva acconsentito. Quello che mi ha colpito non è stata tanto la sua morte, ma la sua dedizione, la sua generosità nell’offrire la sua vita per il bene dei suoi compagni. Io questa la chiamo “espiazione preventiva”.»
Qual era il tuo sogno da giovane prete?
«Andare in missione. Avevo chiesto al mio padre spirituale di poter andare ma ero molto cagionevole di salute e allora mi aveva detto: “Aspetta, prima la teologia!”. In teologia ho chiesto di nuovo e mi ha risposto: “Aspetta a diventar prete!”. Intanto due miei intimi amici sono andati in missione; dovevamo partire tutti e tre, invece io sono rimasto a casa. Diventato prete, mi hanno nominato assistente della Gioventù Cattolica e padre spirituale in seminario, perciò non sono più partito. Dopo è iniziata la vita di comunità. In un certo senso sono partito come missionario, ma in una forma strana: giro continuamente in tutte le parti dove si trova la Comunità Papa Giovanni XXIII, sia in Italia che in tanti altri Paesi del mondo.»
Il momento più entusiasmante?
«La scoperta del mondo di quelli che da noi si chiamano i preju, i preadolescenti. Mi trovavo in cima al Catinaccio, sulle Dolomiti, ospite di un amico, sempre per motivi di salute. In mezzo a quelle montagne mi son detto: qui bisogna fare una casa per gli adolescenti! Vedevo che l’ambiente aiutava a spaziare verso l’infinito, quel no limits di cui hanno tanto bisogno gli adolescenti. Portarli ad attuare un incontro simpatico con Cristo è stato il movente che mi ha spinto ad iniziare il cammino con i preju nel 1953. Quando progettammo questa esperienza ancora non esisteva niente di simile.»
Come ti senti quando ti definiscono un “prete di frontiera”?
«Lo sento dire... mi sembra un nome un po’… fuori!»
Che rapporto hai con Dio?
«Un rapporto che si basa su tre certezze. Primo: la certezza assoluta che lui c’è. Secondo: che io sono un’espressione, come tutti i fratelli, del suo amore. Terzo: che ci sono in me già le linee – che poi Cristo rende esplicite – di un cammino di tutta la persona verso la vita nel senso più bello, più pieno, un cammino di amore, giustizia, verità.»
Quale forma di preghiera preferisci?
«Prima di tutto la celebrazione eucaristica. Per me è l’atto essenziale perché è il Signore che ti coinvolge nel suo sacrificio d’amore e tutte le volte che mangiamo di questo pane e beviamo di questo vino avviene un contatto. La fede non la vedo come un insieme di verità ma una vita che esprime delle verità, suppone una relazione. È una chiamata da parte di Dio a mettermi in relazione con lui. Una relazione che non ha fine, non ha regole, non ha punti che non si possono superare, non rientra in uno schema. L’altra preghiera che gusto è il rosario: ne dico due al giorno, uno alla mattina ed uno al pomeriggio. Poi ho la meditazione del breviario, la preghiera dell’orante biblico, che ti prende dentro con la certezza che è lo Spirito che prega in noi. Sono convinto che chi non prega non solo non capisce, ma non capisce di non capire.»
Ti viene mai il desiderio di ritirarti e vivere solo la preghiera?
«No, perché non lo capirei per me. Data la mia persona, non riuscirei a pregare e non sentire il grido dei figli di quel Padre che io prego.» Citi spesso la Madonna. Cosa ti colpisce di lei? «È una rivoluzionaria. È il genio della maternità, che si compie ai piedi della croce. Credo che questo dono totale di sé passi attraverso la rinuncia, lo svuotamento di sé perché l’altro esista. La comprensione piena e totale del figlio da parte della Madonna è avvenuta ai piedi della croce. Questo mi impressiona molto.»
Cinquant’anni di sacerdozio. Come vedi, in base alla tua lunga esperienza, la figura del sacerdote oggi?
«La vedo espressa nelle parole di Gesù: “Io conosco le mie pecorelle e le mie pecorelle conoscono me”. Il prete è l’uomo del sacro e porta la risposta che va al profondo del cuore dell’uomo. Ogni uomo ha bisogno di vedere Dio, ha bisogno di incontrarlo, di sentirlo come compagno della propria vita. Solo questa relazione vitale può soddisfare quella sete infinita che è dentro l’uomo, di quel “del tutto” che non è contenuto nella realtà limitata. Il sacerdote è l’uomo del perdono, è l’uomo che crea la fiducia, che crea la base sicura. È la persona che prima di tutto deve vivere in se stessa quello che porta, perché il cristianesimo non è un’ideologia ma una persona, Cristo, e la morale cristiana non è un insieme di regole ma una relazione d’amore. Solo il sacerdote può portare in pieno quel bisogno di appartenenza che esiste dentro ad ogni uomo. Là dove è l’uomo, lì deve esserci il prete. Non può chiudersi nelle sacrestie, deve uscire dai suoi palazzi, deve essere segno che orienta un cammino. In altre parole deve essere come Gesù, deve dare non soltanto il Vangelo ma, come dice San Paolo, anche la vita, perché i fratelli gli sono diventati cari.»