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15 Giugno 2024
Ultima modifica: 15 Giugno 2024 ore 16:16

La pena di una madre

In Sudan la peggiore situazione umanitaria al mondo: 756.000 persone con «carenze alimentari catastrofiche»
La pena di una madre
Dal 2003, il Darfur è teatro di un conflitto devastante che ha causato migliaia di morti e milioni di sfollati. Le popolazioni non arabe sono bersagliate dalle forze di liberazione, mentre le organizzazioni umanitarie lottano per fornire assistenza. La disperazione di Izza e dei suoi figli.

Un conflitto dimenticato quello che va avanti dal 2003 in Darfur, quella area del Sudan nel pieno del deserto del Sahara. Tutto ha avuto inizio quando il Movimento Popolare di liberazione del Sudan ha attaccato le forze militari sudanesi nel Darfur settentrionale. Negli anni, migliaia di persone sono state uccise e milioni di civili hanno dovuto abbandonare le loro terre. Oggi scappano prevalentemente verso il vicino Ciad. L'esodo conta oltre 1.2 milioni di rifugiati. «UNHCR» e «Croce Rossa Internazionale» sono sotto pressione nell'affrontare questa emergenza che coinvolge intere popolazioni del Darfur. In particolare, continua la "guerra etnica": le popolazioni non arabe come i Masalit, gli Zaghawa e i Furs continuano ad essere bersagli delle forze di liberazione, le RSF composte in prevalenza da militari arabi, che si riforniscono in Libia con la collaborazione di mercenari russi. Da 20 anni ormai in guerra per conquistare tutto il Darfur.

I miei figli dispersi in Africa

Lo sa bene Izza che nel 2018, grazie ai canali umanitari, con una figlia nata durante il periodo di detenzione in Libia, è riuscita a trovare rifugio in Italia, in una casa-famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII. Il marito che viaggiava con lei è anche stato incarcerato in Libia e non si sono mai più avute notizie. Forse è morto durante la detenzione o cercando di approdare in Europa? Prima di partire avevano messo al sicuro i loro figli in una città di confine, con i nonni paterni. Per diversi anni ha cercato di aiutarli a distanza perché avessero di che mangiare. Poi all'improvviso inizia la disperazione. I nonni muoiono. I figli di Izza, tutti minorenni, non hanno di che vivere e partono attraversando il deserto come migliaia di concittadini. La comunicazione con loro si interrompe per lunghissimi mesi e l'angoscia di non vederli mai più.

Ritrovata solo la più grande, 17 anni

S, la figlia più grande, ha solo 17 anni, riprende i contatti con la madre solo la scorsa estate. Arrivata in Libia, ha temuto per la sua vita, a rischio di essere trafficata e venduta, perde di vista i fratelli e cerca disperatamente aiuto per ripartire e tornare verso sud. Quando riprende i contatti con Izza nuovamente, è in salvo a N'Djamena, la capitale del Ciad invasa dai profughi, presso una famiglia di connazionali. La sentiamo direttamente, parla a fatica l'arabo, non conosce il francese né l'inglese. Ma i suoi racconti e la sua ansia costante fanno pensare che sia sopravvissuta alle violenze e alla fame e debba essere messa al sicuro al più presto, perché non riparta per rotte impraticabili e pericolose.

Aiutatemi a salvare i miei bambini
Izza

Sono le religiose di una congregazione locale, che chiedono di restare anonime, che accolgono la richiesta di aiuto della Comunità di Don Benzi. S. finalmente è al sicuro. Poche settimane fa, i funzionari dell'UNHCR sono andati a intervistarla. E dopo mesi e mesi senza identità, ora è stata registrata come profuga del Darfur.

Ma la battaglia tra un continente all'altro non è finita. Un'altra telefonata dopo Natale di una connazionale al confine tra Sudan e Ciad, fa ben sperare anche del ritrovamento di un altro figlio, J., 15 anni. Per mesi bloccato nella foresta, ora "studia alla scuola del Corano" - dicono al telefono. Ma la mamma non è tranquilla e non lo sono nemmeno gli operatori della Comunità che sospettano abbia iniziato una fase di addestramento militare, nelle forze di liberazione. Quando la madre lo sente dal vivo, gli raccomanda di fuggire verso il Ciad e raggiungere la sorella.

Izza intanto da mesi lavora part-time in una cooperativa sociale in provincia di Cuneo.

La terza figlia, che ha circa 14 anni, ha contatti sporadici con la madre e si trova in una zona molto pericolosa del Darfur tanto che i connazionali a cui la madre si è rivolta per aiutare hanno paura a raggiungere quella zona. Difficile dormire tranquilli, non avere incubi sulla sua sorte. Tutti e tre hanno il suo numero italiano, lei stessa cerca disperatamente notizie dai connazionali scappati da quelle regioni sempre più minacciate. Ma in questa guerra tra popoli non sa più nemmeno di chi può fidarsi. Ogni telefonata può essere un'ancora di salvezza o una mina vagante.

La situazione in Sudan è disumana

Negli ultimi giorni, a causa di uccisioni sommarie e bombardamenti con armi pesanti in aree densamente popolate, la organizzazione Human Rights Watch ha denunciato i crimini accertati - torture, stupri e saccheggi - e per la prima volta è tornata a parlare apertamente di genocidio, richiedendo ai governi dell'area forti sanzioni contro i responsabili dei massacri.

Staff medico in Sudan con cooperanti italiani.
Il team Aispo a Port Sudan, luglio 2018.
Foto di Archivio Aispo 2018
Dal 10 maggio, infatti, El Fasher, la storica città di passaggio delle carovane, dove è anche l'aeroporto internazionale, è devastata dagli scontri tra le Forze Armate Sudanese (SAF) contro le RSF. È drammatica la situazione nella città dove sono intrappolate poco meno di 1,5 milioni di persone tra abitanti e sfollati interni che vi si erano rifugiati. Di ieri la notizia dell'irruzione delle forze paramilitari le RSF al South Hospital, l'unica struttura in grado di rispondere ai bisogni sanitari sempre più emergenziali della popolazione a El Fasher, capoluogo del Nord Darfur, causando vittime tra i pazienti e il personale sanitario. Le RSF sono sempre più accanite perché il Nord Darfur e la sua capitale sono l'unica parte della più ampia regione del Darfur fuori dal controllo dalle cosiddette forze di liberazione. L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha da tempo lanciato un appello per l'emergenza umanitaria in Sudan che sta mettendo in ginocchio anche i presidi di assistenza lungo i confini e soprattutto in Ciad nella capitale, dove si stanno riversando centinaia e centinaia di profughi, in particolare donne e bambini.

Altrimenti soli e abbandonati in aree desertiche, costretti a morire di fame e di sete o a restare sotto i bombardamenti in una terra che a fatica possono dimostrare che è la loro terra di origine.

Appello ai Governi dalle associazioni umanitarie

Izza e gli operatori che la accolgono continuano la sua disperata lotta al ricongiungimento familiare dall'Italia e con le organizzazioni sul posto. A tutti chiede senza sosta: «Aiutatemi a salvare i miei bambini. Sono distrutta e mentre lavoro ogni giorno cerco di non pensare che sono dispersi ed io impotente di fronte al loro grido di aiuto». Anche la voce del funzionario dell'UNHCR, sentito di nuovo ieri per chiedere informazioni di J. che aspetta la sua registrazione nella capitale del Ciad, è molto affaticata.

«Stiamo facendo il possibile - assicura - mi spiace non poter rispondere velocemente ma qui siamo travolti dalle richieste di aiuto. Questo è un esodo enorme di persone. Sollecitate anche i vostri governi. Le nostre forze non bastano a proteggere queste migliaia di rifugiati».