Il tasso di suicidi in carcere in Italia è 13 volte più alto rispetto alla società esterna. C'è una via d'uscita? L'abbiamo chiesto a Giorgio Pieri, da oltre 25 anni a fianco dei carcerati, educatore professionale e coordinatore nazionale del progetto CEC (Comunità Educante con i Carcerati).
All’inizio di giugno 2024, il Consiglio d’Europa ha ammonito l’Italia per i dati allarmanti di suicidi e disagio psicologico all’interno delle carceri. Infatti, nei primi sei mesi di quest’anno i suicidi nelle carceri sono più di 40, andamento che sembra portarci molto vicini al 2022, che ha registrato il tragico record di 85 suicidi. Ma non si tratta solo di questo, anche l’abuso di psicofarmaci e le condizioni generali in cui si trovano i detenuti sono state criticate dal Consiglio Europeo e denunciate da molti anni da chi vede con i propri occhi cosa accade nelle carceri. Per discutere della questione, abbiamo intervistato Giorgio Pieri, educatore professionale e coordinatore nazionale del progetto CEC (Comunità Educante con i Carcerati). Giorgio Pieri visita le carceri da oltre 25 anni.
Come ha interpretato la notizia della ammonizione del Consiglio d'Europa rispetto all'alto numero di suicidi e disagi psicologici nel carcere? Condivide questa preoccupazione?
«Sì, la preoccupazione del Consiglio d'Europa è condivisibile in quanto il tasso di suicidi nelle carceri in Italia è più alto rispetto agli altri Paesi europei. Ogni 10.000 persone che sono in carcere, in media ci sono 8,7 persone che si uccidono, mentre nella società esterna la media è di 0,67. Questo è un dato allarmante perché dice che le carceri non riescono ad affrontare il disagio che le persone già vivevano nella società e che, quando vengono messe in carcere, le porta poi al suicidio. Le persone che si suicidano sono persone fragili. C'è un binomio di cui dobbiamo tenere conto: cioè che la delinquenza - o meglio ancora la devianza - nasce più spesso dentro una fragilità. Il tasso delle persone che entrano in carcere con un disagio psichico è elevato. Non è una semplice devianza, ma è una devianza che è strettamente collegata a una componente di fragilità psichica e psicologica. Questo fa dire che il carcere non è più concepibile così come è oggi.»
Secondo lei si riescono ad individuare le principali cause di questo disagio psicologico, che porta anche al suicidio? Molte fonti nominano il sovraffollamento e la mancanza di condizioni adeguate, ma si riesce ad analizzare in modo più approfondito cosa c’è dietro questa emergenza?
«C'è già stato un richiamo dell'Europa, tempo addietro, riguardo il sovraffollamento nelle carceri. Il dato era simile a quello di oggi, ma il tasso di suicidi in realtà era più basso. Quindi, come mai rispetto al passato, quando il tasso di sovraffollamento era elevato, i suicidi erano meno? Perché la causa è la fragilità delle persone che entrano in carcere. Ci sono leggi carcerocentriche che colpiscono persone fragili che commettono reati anche banali, così l'impatto con il carcere in qualche modo li porta al suicidio. Io credo che si sia elevato il disagio psicologico nella società italiana, che tuttavia ancora non si registra con un aumento di suicidi nella società libera, ma è dimostrato con il tasso di suicidi nel carcere tra i più alti in Europa.»
Quindi secondo lei ci sono dei gruppi sociali, dei gruppi di detenuti che sono più vulnerabili rispetto ad altri?
«Sì, senza dubbio. Dobbiamo dare risposte adeguate a questo tipo di popolazione, che pur avendo commesso dei reati, di fatto ha in sé delle fragilità che li rendono in qualche modo incompatibili con il sistema carcerario.»
Parliamo anche delle guardie carcerarie, perché il problema del disagio psicologico e dei suicidi riguarda anche le guardie, non solo i detenuti.
«Sì, negli ultimi 10 anni ci sono state 25 guardie che si sono suicidate. Questo è perché è il sistema ad essere malato, non la popolazione o chi gestisce il carcere. Non vogliamo colpevolizzare chi porta avanti il carcere - come gli educatori, le guardie, oppure la direzione carceraria -, ma è il sistema che è malato e noi dobbiamo rimuovere ciò che lo rende tale.»
Per quanto riguarda il problema delle lunghe attese per entrare nelle REMS (Residenza per l'Esecuzione delle Misure di Sicurezza), secondo lei influisce sul disagio psicologico e sull’incapacità di gestirlo?
«Io conosco delle persone che dovrebbero entrare nelle REMS (Residenza per l'Esecuzione delle Misure di Sicurezza), ma non c'è posto. Questo è stato, purtroppo, il problema di aver chiuso gli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari), ma di non aver adeguatamente aperto le REMS. Ci sono strutture dove situazioni allarmanti, così già nel tempo del Covid-19, sono ancora tali: persone che non entrano nelle REMS perché non c'è posto. La vergogna di tutto questo è che tutti denunciano queste cose: le direzioni delle carceri e anche i DAP (Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria), tutti i giorni con dati allarmanti. Il problema è non voler trovare soluzioni, perché in realtà le soluzioni si possono trovare.»
Quindi si potrebbe cercare di arginare gli effetti negativi di queste lunghe attese. Ad esempio, parliamo del supporto psicologico che viene dato all'interno delle carceri: è una cosa su cui si può magari investire? È un meccanismo funzionante?
«In realtà lo Stato ha investito sul rinforzo legato alla questione dei suicidi: ha promosso l'entrata di nuove figure professionali all'interno delle carceri, ma non è sufficiente. Perché il sistema di chiusura, cioè la vita in carcere, di una persona che va in questi inferni non può essere guarita da un colloquio una volta alla settimana o una volta al mese. Ci sono carceri dove l’educatore c’è una volta ogni tre mesi, quando va bene, e ci sono detenuti che non sono riusciti a fare nessun colloquio nell’arco di un anno. Questo perché il numero degli educatori è inferiore al bisogno. Dei circa 150 euro che è la spesa di un detenuto, non si arriva a un euro per quanto riguarda il personale di educatori: sull’educazione si investe sostanzialmente poco.»
È un problema allarmante. Cosa si può fare?
«Dal nostro punto di vista, come Comunità Papa Giovanni XXIII, una proposta l’abbiamo portata ai governi precedenti e anche a questo governo: cioè riconoscere le comunità educanti presenti sul territorio nazionale aperte da cappellani o da volontari. La Comunità Papa Giovanni XXIII è particolarmente strutturata attraverso il progetto CEC (Comunità Educante con i Carcerati). È creare spazi e luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere con percorsi educativi da svolgere in un circuito comunitario protetto, garantendo in questo modo sicurezza ai cittadini, rispetto alle vittime e riscatto al reo. Noi crediamo che una soluzione sarebbe applicare la legge secondo cui sotto i 4 anni (di reclusione) le persone che non sono pericolose possano uscire dal carcere: queste potrebbero già andare in comunità educanti. Oggi le comunità educanti non sono pagate dallo Stato, sono a costo zero per lo Stato. Chi apre, come la Papa Giovanni XXIII, una casa per 20 persone, si assume questo onere economico. In più, non c’è nessun riconoscimento giuridico e amministrativo. Noi quest’anno facciamo 20 anni di esperienza e non ci sono state fughe, non ci sono stati suicidi: questo è perché la persona riusciamo a prenderla per mano. Sotto i 4 anni di reclusione si può fare l’affidamento e già 20.000 posti nelle carceri potrebbero essere liberati grazie alle comunità.»
Questa legge dovrebbe essere integrata con una collaborazione maggiore tra lo Stato e la società civile? Una collaborazione sia giuridica che economica?
«Noi proponiamo proprio questo. Devono essere realtà gestite dal privato ma pubbliche: lo Stato dovrebbe sorvegliare l’andamento di queste comunità. Le comunità possono essere la soluzione sia per deflazionare il carcere, che per abbassare la recidiva. Abbiamo visto che ogni giorno escono dalle carceri italiane 150 persone; di queste, 120 tornano a delinquere, con una recidiva dal 70% all'80%. Chi invece svolge percorsi comunitari vede la recidiva abbassarsi al 10-15%. Solo questo fa dire che la comunità è la scelta da percorrere. Quindi, potremmo abbassare il sovraffollamento, che contribuisce all'innalzamento dei suicidi. Ma non è solo il sovraffollamento, è il sistema che va cambiato e crediamo che la via delle piccole realtà comunitarie, piccole ma numerose, sia la via maestra. Oltretutto, questa soluzione abbassa anche i costi, tant'è che abbiamo proposto allo Stato una retta di 50 euro contro i 150€ che spende lo Stato. Perché non si fa? Non dobbiamo avere paura del cambiamento, dobbiamo temere il mantenimento delle condizioni attuali, sapendo che ci sono, purtroppo, non solo alti numeri di suicidi all’anno, ma anche 800-900 casi di maltrattamento, e si calcolano circa 20.000 casi di autolesionismo. C'è un sistema violento all'interno delle nostre carceri che non può andare avanti in questo modo. Purtroppo ora va così perché di fronte al male la società ha paura e quindi preferisce chiudere tutti dentro una scatola di cemento piuttosto che affrontarlo in maniera adeguata.»