«Il primo disagio che osservo sta nella scarsa coscienza che noi adulti abbiamo del potere formativo delle nostre azioni, del nostro modo di comunicare, anche del nostro non-fare, non-intervenire, non prendere posizione, soprattutto quando agiamo tutto ciò inconsapevolmente. “Ciò che fai (e non fai, aggiungo io) grida più forte di ciò che dici” diceva don Oreste Benzi. Un antico proverbio dice: “Le tua azioni sono i tuoi monumenti”. Restano di noi i nostri agiti che sono ciò da cui apprendono i ragazzi.
«Siamo noi adulti a mettere in mano ai nostri ragazzi i loro smartphone facendo mille raccomandazioni per poi “bullizzarci” tra genitori nei gruppi WhatsApp o divenendo incapaci di staccare gli occhi dai nostri device quando loro ci parlano. Siamo noi adulti a vendere a ragazzi minorenni sigarette e alcol, quando non di peggio. Siamo noi a lavorare senza alcuna passione e senza chiederci cosa stiamo producendo e consumando “tanto contano i soldi”, “tanto conta avere”. I comportamenti raccontano quali sono le nostre priorità: competizione, apparenza, performance, soldi, successo, vittoria, scarto, consumo. Quali memorie si iscrivono nelle menti dei ragazzi fronte ai nostri comportamenti? C’è una fragilità adulta che per alcuni esperti è un fenomeno peculiare dei nostri tempi. Lancini, Pellai, Crepet, Manca, Recalcati, Mendolicchio e tanti altri studiosi parlano di questa realtà di fronte all’esplosione del disagio psicologico e dei disturbi del neurosviluppo che dilaga tra bambini e ragazzi.»
«Siamo perennemente in cammino: in certi momenti raggiungiamo obiettivi importanti come quando abbiamo prodotto la Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, risultato raggiunto in un non molto tempo fa, nel 1989; in altri ci arrestiamo, torniamo indietro, facciamo eclatanti scivoloni. So che a questo punto si potrebbe fare un’equazione fuorviante: allora la causa dei disagi che i nostri figli vivono siamo noi adulti. Il paradigma causa-effetto mal si adatta ai fenomeni umani, la complessità è un paradigma più accettabile e più realistico. Non si tratta di definire le “colpe”, con la conseguente elusione della complessità, ma di assumersi delle responsabilità, come quelle di dotarsi di strumenti per riconoscere le fatiche e non restare indifferenti di fronte al disagio dei ragazzi. Dovremmo crescere nella nostra “coscienza di sé” ponendoci a confronto con una realtà difficile come quella attuale che ci sfida continuamente, crescere nella “coscienza di noi” lavorando ad esempio sul “senso di comunità”, che è un mantra ormai, in tante nostre riflessioni ed interventi.»
I bambini vivono un mondo apparentemente sicuro e rassicurante, ma che in realtà movimenta angosce profonde. Davide racconta che qualche giorno fa ha incontrato uno psichiatra che lavora in una NPIA che ha detto di aver preso in cura più bambini e ragazzi negli ultimi 3 anni che in 37 anni di carriera. A noi adulti cosa dice tutto questo? Non dovremmo cercare di capire e poi lavorare su ciò che possiamo cambiare di noi ed intorno a noi?
Tanti adulti di oggi hanno avuto la fortuna di incontrare bravi “capitani” (l’espressione è del dott. Crepet) sul proprio cammino, uomini e donne, che hanno saputo imprimere sicurezza, gusto per l’esistenza, gioia per la conquista anche se faticosa, sono riusciti ad essere anche dei buoni allenatori emotivi. In tanti abbiamo i nostri “eroi”, vicini e lontani: gente che ci ha affascinato perché ha saputo vivere perseguendo un’idea, “vivendo come pensava”, come amava dire la sua insegnante di filosofia del liceo. Tanti bravi “capitani” affiancano i ragazzi anche oggi, permane però un mondo con una forza d’urto enorme e brutale che ne spegne gli slanci e rubrica come inutile ogni vitalità.
Il disagio è intorno e dentro la scuola. L’aneddoto della ragazza difficile dell’inizio ha origine fuori dalla scuola e vi atterra dentro, così come può accadere il contrario. Nessuna dimensione di vita è impermeabile all’altra. Benché gli insegnanti vorrebbero occuparsi solo di didattica, devono occuparsi anche d’educazione. Benché i genitori vorrebbero che i figli entrassero a scuola ignoranti e ne uscissero eruditi, devono fare i conti col fatto che questo non accade automaticamente. Davide definisce la scuola come un crocevia: noi siamo quelli che lo attraversano, con i nostri figli e tutto il personale chiamato a passare di lì.
«“Cambiare la scuola” è un’espressione forte, che toglie il fiato tanto è grande ciò a cui si riferisce. Se l’obiettivo è la formazione integrale dei ragazzi ed essi oggi vivono un profondo disagio, occorrerebbe pensare che sia anche compito della scuola farsene carico. La scuola, come ente educativo, potrebbe essere il principale attore in un processo di coscientizzazione sociale, per dirla con Freire, e di organizzazione d’azioni, dotandosi della flessibilità necessaria in una società in continuo cambiamento. Conosco dirigenti e docenti meravigliosi che già si impegnano tantissimo per introdurre qualche piccolo cambiamento in una struttura molto rigida.
La scuola oggi potrebbe avere un ruolo basilare nel farsi promotrice di cambiamenti anche nel contesto esterno al fine di creare una “comunità educante”».
«Ciò che colpisce spesso i nostri interlocutori nelle scuole è "come" portiamo avanti i percorsi, non soltanto “cosa” realizziamo. L'approccio è dialogante, in ascolto dei bisogni: integriamo e adattiamo diversi strumenti con l'intenzione di trovare la strada migliore e più efficace per rispondere alle necessità del contesto. Cerchiamo di portare una ricchezza di sguardi che deriva dalla condivisione diretta. Sono tante le persone fragili con cui la Comunità Papa Giovanni XXIII entra in contatto, che ci arricchiscono e ci rendono attenti a ciò che potrebbe generare dolore nei ragazzi. Entrando in classe abbiamo in mente i percorsi di vita più faticosi di cui qualunque studente davanti a noi potrebbe essere il protagonista.»
«Benasayag e Schmit hanno offerto qualche anno fa un’importante riflessione: la situazione attuale mondiale, in cui il futuro sembra generare più minacce che speranze, non crea una spinta sufficientemente motivante nei ragazzi. Questi due psichiatri si sono trovati alle prese con giovani che non riuscivano a dare un nome al loro “star male” ed hanno indicato una possibile con-causa in una condizione che oltrepassa la dimensione psicologica, diventando culturale e sociale. La dott.ssa Maura Manca afferma che le sofferenze psichiche hanno un’origine “multifattoriale e probabilistica”.
Da qui nasce la necessità di lavorare sulla prevenzione del disagio agendo in un quadro di grande complessità e dando ad essa una misura giusta, non riduzionista. Spesso non basta un incontro all’anno su un tema emergente, come la violenza sulle donne, pensando che questo sia “preventivo”, ma bisognerebbe investire e lavorare su molti piani contemporaneamente, consapevoli che la prevenzione non dovrebbe muoversi in un contesto d’emergenza ma per prevenirla. Occorre sempre più il coraggio d’impegnare le risorse necessarie perché ogni scuola possa lavorare sulla “sfera del sé”. Non intendo solo attività di tipo psico-educativo, ma ad esempio anche laboratori di musica, teatro, cinema, gioco, danza, coding, natura, orto, falegnameria che possono diventare veicoli straordinari per lo sviluppo armonico delle intelligenze multiple. Sarebbe solo l’inizio di un viaggio verso un maggiore distanziamento di bambini e ragazzi da nemici come le sostanze stupefacenti, la violenza, il gioco d’azzardo.
Allo stesso modo, la prevenzione vorrebbe evitare ai ragazzi d’esplorare aree di sviluppo, che afferiscono ad esempio alla sfera della sessualità, delle tecnologie o delle emozioni, in completa autonomia, senza alcun supporto formativo a loro disposizione.
Più sguardi ben allenati possono inoltre intercettare un disagio precocemente offrendo una presa in carico tempestiva.»
«Il rapporto con le tecnologie, le dipendenze da sostanze e comportamentali (in modo particolare il gioco d’azzardo), la violenza di genere, la violenza, l’intelligenza emotiva, l’orientamento e il contrasto alla dispersione scolastica. Abbiamo per questi argomenti percorsi specifici che presto pubblicheremo anche sul nostro sito (www.dipendenzepatologiche.apg23.org).»
«Il mio sogno è una scuola dove gli studenti, insegnanti e genitori vanno volentieri, una scuola che appassioni!
Porto alcune idee che stiamo in parte sperimentando come cooperativa in collaborazione con delle scuole e che vorremmo realizzare in modo più organico in un futuro prossimo.
I gruppi classe: in alcune scuole sono troppo numerosi. Difficile è prendere in carico il singolo studente, permettere l’emergere del suo talento ed aiutarlo nei punti di debolezza.
Equipe psico-educative: in ogni scuola i docenti dovrebbero poter fare equipe almeno con uno psicologo ed un educatore. Potrebbero esserci spazi di supervisione per sostenere i docenti e prevenire il rischio di burn-out, per co-progettare interventi, avviare laboratori e generare fucine in cui far circolare nuove conoscenze. Lavorare con le organizzazioni (università, cooperative, istituti formativi) offre possibilità diversificate. Le figure psicologiche potrebbero avere un’ora settimanale in classe per monitorare le situazioni e proporre dei percorsi. Le figure educative potrebbero essere a servizio delle iniziative extracurricolari (feste, gite, laboratori), affiancare ragazzi a rischio drop-out, andare a cercare chi non frequenta più, organizzare gli aiuti per chi sta male e non riesce a seguire le lezioni (es. ragazzi ospedalizzati, sportivi, in ritiro sociale) occupandosi degli aspetti relazionali oltre che curricolari.
Sportello d’ascolto e orientamento: l’orientamento è un processo lungo che si dipana in tutti gli anni della scuola, non solo in alcuni momenti specifici. Sarebbe importante mettere in campo competenze educative e psicologiche che lavorino a servizio dei singoli e delle classi.
Sfera della Comunità: la scuola sempre più dovrebbe essere innervata con le risorse esterne a partire dalle famiglie. Sono molte le opportunità di collaborazione che possono essere messe a disposizione dal mondo sociale, religioso, culturale ed artistico, sportivo, imprenditoriale.
La scuola che trattiene per più tempo gli alunni al suo interno, da molti invocata, è una buona idea. Si potrebbe avere un programma ricco d’attività svolte con persone esterne, collegate alla didattica, ma vicine ai linguaggi contemporanei usati dai giovani, nei campi della musica, del teatro, dello sport, delle tecnologie, dell’attività fisica non competitiva, in cucina, in falegnameria, nell’orto. Occorrono aree verdi in cui oziare. Per realizzare questo servono spazi adatti che si potrebbero trovare grazie ad alleanze con altri enti. Sarebbe importante comprendere nelle attività le famiglie e offrire attività per esse; intercettare sempre più i genitori per fare in modo che il tempo prolungato a scuola non sia una delega sulla formazione dei figli ma diventi un patto educativo verso obiettivi comuni e strategie condivise».