Partiamo con una domanda secca. Conosceva don Oreste?
«Sì l’ho conosciuto. Quando ero a Bologna portavo gli scout a fare servizio nelle realtà della Comunità Papa Giovanni XXIII. Ricordo che andammo vicino a Cattolica in una fattoria molto bella (san Facondino, ndr) e lì lo conobbi… concelebrammo la Messa per il matrimonio dei due giovani che gestivano l’azienda, e ricordo un episodio molto bello: all’offertorio donò ai due giovani sposi un bambino in affidamento. Sempre segno di un amore per gli altri, per i più deboli. Questo io ho visto come costante della sua vita».
È la prima edizione del Premio intitolato a don Oreste, e il focus di quest’anno era darlo a una persona che si è distinta nella vita tra i giovani…«La cosa particolare è che data la mia età non vivo immediatamente in mezzo ai giovani, anche se le esperienze che abbiamo avviato continuano. Questo premio io lo considero assegnato a tutta la Compagnia di Gesù».
Lei viene da una famiglia in vista della “Roma bene”, però si è distinto per le occupazioni studentesche, le proteste del sessantotto, e poi il grande amore per lo scoutismo. Un’identità borghese ma un’anima turbolenta, sempre in ricerca…«La mia fortuna, se così possiamo dire, è che sono sempre stato immerso in situazioni di sofferenza, sia sociale che culturale, e questo mi ha dato modo di inventare esperienze dove era importante unire all’azione pastorale di tipo religioso-spirituale ad un’azione di promozione umana. Questo lo devo molto allo spirito della Compagnia, a Padre Arrupe (un gesuita basco, preposito generale della Compagnia di Gesù, ndr), al dopo Concilio e alla possibilità che mi hanno dato di uscire, fare esperienze».
E a Scampia come c’è finito?«Dopo gli anni in Emilia e a Bologna i superiori hanno pensato che nel quartiere di Scampia, dove già c’erano dei Gesuiti che avevano un’azione pastorale, si potesse sperimentare un’azione più integrale che non fosse solo di evangelizzazione spirituale ma anche di formazione umana. Allora mi chiesero di fare un progetto che potesse unire queste tre componenti - fede, cultura e giustizia - sul modello che padre Arrupe aveva indicato negli anni del dopo Concilio. In un quartiere dove c’è solo il lavoro nero, la camorra, la criminalità, abbiamo pensato ad un’esperienza di lavoro onesto. Così è nato il Centro Hurtado e la cooperativa La Roccia, per la formazione, e oggi abbiamo un laboratorio di sartoria, uno di informatica, uno in cui dei giovani lavorano per restaurare libri antichi. È una piccola esperienza, che però dimostra che se si investe nel bene si portano buoni frutti».
Nel suo libro “Un gesuita a Scampia” lei scrive che, a un certo punto, ha cominciato a chiedersi: “Dov’è la Napoli dei monumenti, dell’arte e della bellezza che ho conosciuto da studente?” Come si concilia questa bellezza con Scampia, che nell'immaginario, è proprio brutta, squallida?«Ecco, il punto dolente è questo. Il progetto urbanistico di Scampia non prevedeva che ci fosse una condensa di delinquenza e di povertà culturale. È un quartiere nato dopo gli anni 70 con l’intento di riunire famiglie disaggregate dopo il terremoto. I servizi ci sono, ci sono scuole, ci sono farmacie, c’è un’ottima assistenza sanitaria, ci sono parrocchie. È una piccola città, però è un modello di periferia urbana non concepita sulla misura della persona, come altre realtà a Napoli: san Giovanni a Teduccio, il quartiere Barra, Ponticelli. Le periferie sono luoghi malati per la non progettazione di soluzioni abitative e perché non danno la possibilità alle persone di vivere una socialità ricca, una socialità umanamente bella. E questo lo si avverte, anche se in questo momento a Scampia non c’è violenza evidente, non c’è spaccio in strada… è tutto nascosto. Soprattutto è nascosto il disagio di molti che non hanno lavoro. C’è l’abbandono scolastico dei ragazzi, la privazione di momenti felici, di serenità. C’è una sofferenza sommersa, quindi la necessità di aiutare le persone. Una cosa bella di Scampia è che negli ultimi anni sono nate tante associazioni, sia di ispirazione religiosa che laica, che cercano di supplire a questa mancanza di visione urbanistica felice».
Sempre nel libro leggiamo “Soltanto con il lavoro e con la scuola lo Stato riesce a contendere i giovani alle lusinghe della camorra”. E al centro della sua opera c’è proprio l’educazione. Cosa vuol dire educare a Scampia?«Oggi i risultati sono molto poveri, abbiamo un alto tasso di abbandono scolastico, c’è un deficit di proposta nonostante ci siano 5 istituti superiori. Si avverte la mancanza di cultura proporzionata ai veri bisogni delle persone. Quindi fare educazione a Scampia vuol dire trarre dalle persone, anche le più povere, abbandonate e sole, quel bene che possono coltivare nel cuore e far crescere una cultura di legalità, bellezza, capacità di stare insieme in modo sereno e forte. Teniamo poi presente che c’è un’alta presenza di famiglie che hanno persone detenute o agli arresti domiciliari. Proprio accanto a Scampia c’è il carcere di Secondigliano e a Napoli quello di Poggioreale».
Sul tema del carcere, don Benzi ripeteva anche che l’uomo non è il suo errore«È vero. Fin da giovane ho avuto una grazia: ho sempre cercato contatti con carceri. Sono assistente volontario sia a Secondigliano che a Poggioreale, e sto sperimentando dei progetti che promuovono piccole azioni di crescita, ad esempio nel lavoro. Abbiamo messo in piedi degli orti e una cucina per fare confetture, e anche se si dà lavoro a pochi, si prova che quando a una persona si dà dignità, e questo avviene soprattutto con il lavoro, recupera una umanità che non aveva mai sperimentato e vissuto».
Come vive lei oggi a Scampia?«In questo momento sono superiore in una comunità di Gesuiti che è in corso Vittorio, abbiamo una piccola residenza e ci occupiamo di varie attività, ho dei confratelli che sono alla facoltà teologica. Tento di fare un ponte tra la Napoli “bene” e la Napoli di Scampia, dove sono in parrocchia, ho un gruppo di lettura biblica, visito le famiglie e gli ammalati, frequento il carcere di Secondigliano. Sperimento la possibilità che la Napoli dei quartieri alti, molto chiusa in una borghesia benestante, possa aprirsi e avvicinarsi alle periferie. Questa è una scommessa importante perché se uno non investe in lavoro e cultura l’esclusione continua a crescere. Questo ponte tra le due città è importante e mi appassiona».
Insomma è rimasto coerente a se stesso, alla sua doppia anima«Ora io non sono più responsabile al centro Hurtado anche se presiedo la cooperativa. La Compagnia ha creduto in questo progetto e a me fa piacere perché oramai sono vecchietto, sono i giovani oggi a condurre questa presenza e quest’opera, e questa è una grande felicità per me».
Il Papa quando è venuto a Scampia quattro anni fa ha detto che la sua presenza voleva essere un impulso alla speranza, alla rinascita. Qual è la speranza di Scampia? Nell’immaginario collettivo è l’inferno, una realtà che fa paura, e che conosciamo esclusivamente attraverso gli stereotipi delle fiction«La fiction è stata un’operazione infelice e molto grave, pericolosa non solo per l’immagine ma anche per incrementare un’azione positiva. La speranza nasce dalle persone. Quando si visitano le famiglie, si mettono insieme i giovani, queste associazioni laiche e di spiritualità si impegnano… non c’è quartiere di Napoli che abbia un fermento forte e continuo, anche molto nascosto se vogliamo, come quello di Scampia. Veramente è un qualcosa di straordinario, incontrare i volontari e gli operatori sociali che stanno promuovendo azioni tanto belle, la cooperativa Obiettivo uomo, Casa Arcobaleno, il Mammuth, Chi rom e Chi no, che ha messo in piedi un ristorante dove lavorano insieme donne italiane e donne rom. Questa è la speranza di Scampia, e nessuna fiction ce ne parla».