Come è possibile che le vedove diminuiscano? «Nel 2018 prosegue l’evoluzione favorevole della sopravvivenza: si valuta che gli uomini possano contare alla nascita su una vita media di 80,8 anni e le donne di 85,2. Nel tempo, il divario di sopravvivenza delle donne rispetto agli uomini si è ridotto: il differenziale osservato ha raggiunto 4,4 anni, quasi uno in meno rispetto a dieci anni fa. Questo ha peraltro portato le donne in età anziana a convivere più a lungo con il coniuge rispetto al passato, quando le vedove ultra65enni erano più numerose delle corrispondenti coniugate». Uno stralcio interessante dalla Sintesi del Rapporto ISTAT annuale presentato ieri dal Presidente Blangiardo a Palazzo Montecitorio.
Oggi ricorre la Giornata internazionale delle persone vedove, istituita dall’Onu nel 2011. In Italia sono circa 5 milioni le persone vedove, e molte hanno figli minori.
Un tema nel quale la fredda analisi sociologica, dei dati, si incrocia con le questioni economiche. Storicamente le donne vedove sono state considerate una categoria particolarmente a rischio di povertà, per le quali - nelle società più umanamente evolute - si provvedeva al sostentamento.
Ci sono però altri punti di vista da cui possiamo affrontare il fenomeno della vedovanza.
La psicologia da anni mette la morte del coniuge come la causa di stress più acuto per il sistema psicofisico di un individuo, che si trova ad elaborare faticosamente un lutto e allo stesso tempo a dover riorganizzare la vita propria e dei propri familiari.
Per chi crede c'è anche una dimensione spirituale. Don Oreste Benzi, nel libro Nel cuore della famiglia (Editore Sempre), scrive:
«Dopo la morte del coniuge c’è chi si risposa, perché il vedovo, la vedova sentono in sé il bisogno di un completamento psicologico di cui non riescono a fare senza. Sentono che la loro vita senza un consorte sarebbe incompleta, difficile, impossibile. Essi non rinnegano il coniuge precedente, anzi in molti casi lo valorizzano, sposandosi. È la loro persona che esige un altro con cui diventare una sola persona.
Per altri è impossibile risposarsi: il coniuge defunto è sentito vivo. Il suo io è talmente nell’io di chi sopravvive che la scomparsa del corpo non è significativa. L’amore è ancora tutto integro e nel cuore di chi rimane non è cambiato nulla. È l’unità totale. La stessa idea di risposarsi viene esclusa.
Altri scelgono la vedovanza per un fine più grande. Tanti, partendo dalla fede, scelgono di rimanere vedovi per la costruzione del regno di Dio. Essi hanno vissuto il matrimonio non come appartenenza ma come obbedienza al Signore che li chiamava a mettere la loro vita con quella della persona amata. L’esistenza come una sola persona a due continua. Come il coniuge deceduto vive nel Signore, così chi è rimasto vive nel Signore e per il Signore. La vedovanza diventa uno stato di vita consacrato al Signore. Le vedove, i vedovi che rimangono tali per libera scelta, diventano di per sé costruttori del regno di Dio».
Risposarsi dopo l’interruzione di una prima unione è stato un fenomeno presente in tutte le società. In epoche passate, a differenza di oggi, la morte del coniuge era l’unico motivo per accedere ad una nuova unione. Intorno alla fine del 1800 – ha scritto il demografo Livi Bacci – le seconde nozze per vedovanza costituivano quasi il 20% di tutti i matrimoni, più frequenti per i vedovi (12%) che per le vedove (6,7%).
Con la diminuzione della mortalità le seconde nozze hanno raggiunto proporzioni esigue (intorno al 2,9% nel 1970), salvo la crescita degli ultimi anni per effetto dell’aumento esponenziale di divorzi.
Anche se il tempo sembra giocare a favore di una diminuzione delle differenze tra i sessi, ancora oggi gli uomini sono più orientati ad una seconda unione.