Nell'aprile del 2002, durante l'assedio alla Basilica della Natività a Betlemme, don Oreste Benzi tentò di mediare per la pace tra israeliani e palestinesi. La sua azione si inserisce nel contesto più ampio della Seconda Intifada, cercando vie alternative alla violenza attraverso il dialogo e la riconciliazione.
C’è una foto che ritrae don Oreste Benzi, insieme ad alcuni volontari della Comunità Papa Giovanni XXIII, di fianco a un carro armato, al check point di Betlemme, in Palestina, nell’aprile del 2002.
Don Oreste Benzi tenta di portare la pace in Palestina
Che ci faceva il sacerdote dalla tonaca lisa nella sempre martoriata terra di Gesù?
Voleva compiere uno dei suoi gesti da “folle di Dio”, voleva invitare alla riconciliazione israeliani e palestinesi, proprio in quel momento in cui imperversava uno dei tanti violenti scontri che si susseguono dal 1948.
Il momento storico è quello dell’assedio dell’esercito israeliano alla Basilica della Natività di Betlemme, dove si erano rifugiati 240 miliziani palestinesi, appartenenti a diversi gruppi armati come Brigate al-Aqsa, Jihad islamica e Hamas.
Tutto cominciò il 2 aprile 2002, il martedì dopo Pasqua, che era stata celebrata il 31 marzo, come quest’anno. I miliziani armati, inseguiti dall’esercito israeliano, sfondarono la porta del convento di santa Caterina, attiguo alla Basilica. I frati in un primo momento volevano mandarli fuori, perché non volevano uomini con le armi in un luogo sacro. Ma se i miliziani fossero usciti, sarebbe stato un massacro. E così cominciò l’assedio che durò 39 giorni.
Era il periodo della Seconda Intifada (2000-2005). Come risposta ai frequenti attentati terroristici dei kamikaze, l’esercito israeliano invase le più grandi città della Cisgiordania: Ramallah, Jenin, Tulkarem, Qalqilya, Nablus, Betlemme.
Fu la più grande operazione militare in Cisgiordania, dopo la guerra dei 6 giorni del 1967. Durante quei 39 giorni il mondo rimase con il fiato sospeso, temendo il peggio.
Don Oreste: questo terrorismo non si combatte con i tank o gli Apache
Don Oreste ovviamente non riuscì ad andare alla Basilica ma da Betlemme inviò un articolo che diventò l’editoriale del successivo numero di Sempre.
Vale la pena rileggerlo per due motivi: per il giudizio di fondo sulla questione israeliano-palestinese che dopo 22 anni assume un valore ancora maggiore; per alcuni giudizi storici che letti oggi appaiono profetici.
I protagonisti di allora erano il primo ministro israeliano Ariel Sharon, il presidente dell’Autorità palestinese era Yasser Arafat, e a Roma, a invocare la pace, c’era Giovanni Paolo II.
«Qual è lo scopo dell'attuale azione di guerra che persegue Sharon? – si chiedeva don Benzi - Non è cancellare il tipo di terrorismo, quello dei kamikaze, che è e sarà sempre più intenso. Questo terrorismo non lo si può combattere con i tank o con gli Apache. Lo scopo che persegue Sharon è di rendere impossibile la realizzazione di uno stato palestinese sovrano alla pari dello stato d'Israele, come è stato previsto dall'Onu nel 1948 e dagli accordi di OsIo del 1992». In effetti, Sharon vinse le elezioni sulla base di una piattaforma molto critica nei confronti degli accordi di Oslo, anche se nell’ultima parte del suo mandato ruppe con il partito conservatore Likud e fondò il più moderato partito Kadima.
L'ingiustizia fomenta la ribellione
Il sacerdote era molto severo verso la politica di Sharon praticata in quel momento, vi vedeva il tentativo di svuotare di potere la ANP, di impedire il sogno dei due popoli e due Stati. «Non viene accettato un popolo dentro un altro popolo. È una vera tragedia. Senza soluzione possibile». In sostanza, il sacerdote intravedeva l’estremo pericolo di una radicalizzazione da una parte e dall’altra, ciò che dopo 22 anni sembra essersi purtroppo pienamente realizzato: «Un odio mortale si è radicato nel cuore dei palestinesi e degli israeliani. Gli uni sono contro gli altri, senza una via di pacificazione intesa in senso cristiano». Sembrano parole pronunciate oggi.
Don Benzi pensava che il conflitto di quei giorni non avrebbe portato a nulla di buono: «Una volta che l'esercito israeliano lascerà i territori, tutto ricomincerà come prima. L'ingiustizia fomenta la ribellione che sarà attuata in tutti i modi possibili. Intanto si rafforzerà il progetto Hamas. Siamo in un dramma senza possibilità di uscita».
Come portare la pace in Palestina?
Non so se il problema fosse chiaro anche agli analisti geo-politici del tempo, ma il sacerdote aveva capito che in quella situazione senza sbocchi sarebbe stato rafforzato il progetto di Hamas. Non sappiamo cosa intendesse, quali fossero le sue informazioni, ma gli obiettivi di Hamas erano comunque già chiari allora: distruzione dello Stato di Israele, radicamento nella popolazione palestinese con iniziative assistenziali, tentare di vincere le elezioni. Obiettivo, quest’ultimo, che sarà pienamente centrato appena quattro anni dopo, nel 2006. L’anno prima Sharon aveva completato il pieno ritiro degli israeliani da Gaza, lasciando mano libera ad Hamas.
«L'unica via da tentare è la riconciliazione, l'incontro alla pari fra due stati», sosteneva don Oreste. In quei giorni aveva incontrato gli esponenti di un’associazione di famiglie israeliane che avevano avuto vittime dai palestinesi e di un 'associazione di famiglie palestinesi che hanno avuto vittime dagli israeliani. L’incontro con loro, disponibili ad avviare un percorso di riconciliazione, lo aveva rafforzato nel suo giudizio: ci può essere un destino di pace solo quando qualcuno smette di alimentare l’odio e comincia un cammino diverso, magari faticoso e doloroso, ma certamente diretto verso la pace.
«Mai come oggi - scriveva il sacerdote - si vede che Gesù è l'unico Salvatore del mondo. Il Vangelo, che è Gesù, abolendo la violenza in forza dell'amore, rende possibile la convivenza di tutti gli uomini».
Il suo punto di riferimento nel valutare il conflitto israelo-palestinese era Giovanni Paolo II: «Oggi la voce del Papa, che grida la necessità di percorrere la via della giustizia per rendere possibile la coesistenza dei due popoli cugini, tutti figli di Abramo, è l 'unica voce precisa e forte».
Papa Francesco invoca senza sosta la pace
Ventidue anni dopo lo scenario è lo stesso, l’unica voce a invocare senza sosta la pace è papa Francesco. Né l’uomo né l’altro hanno mai accettato di farsi assoldare come cappellani di una delle parti in conflitto, in qualunque teatro di guerra (qui si può mettere il link all’articolo della bandiera bianca). Nell’ultima udienza del mercoledì Francesco ha concluso con questo invito: «Ogni giorno qualcuno si prenda tempo per pregare per la pace».
Don Oreste Benzi così aveva concluso l’articolo che abbiamo preso in esame: Ci siamo raccolti in preghiera presso il check point di Betlemme. Il primo scopo è di convertirci ognuno di noi e di passare dall'odio all'amore, dall’indifferenza all'impegno, dallo stato di inimicizia permanente nei nostri cuori al perdono creativo. La nostra conversione favorisce l'azione di Dio per il rinnovamento dell'umanità. Ciò che avviene tra Israele e i palestinesi in forma catastrofica, avviene, anche se in forma meno appariscente, nelle famiglie, nelle comunità, nei partiti e nei governi di tutto il mondo. Nessuno ha le mani pulite di fronte a questo conflitto».