Dopo l'aborto: anche una sofferenza può portare a percorsi di rinascita. Raccogliamo le testimonianze dei genitori che hanno vissuto l'esperienza di un aborto. Mandaci la tua storia!
Il post-aborto è un argomento delicato che coinvolge profondamente le donne e le loro famiglie. È importante dare voce alle storie di chi ha vissuto questa esperienza, per comprendere il dolore e la speranza che ne derivano.
L'aborto rappresenta una decisione difficile per molte donne, spesso accompagnata da un intenso senso di perdita e sofferenza emotiva. Le motivazioni che portano a questa scelta possono essere molteplici: condizioni economiche precarie, mancanza di supporto sociale o psicologico, problemi legati alla salute fisica o mentale della donna.
Le testimonianze di donne (ma anche di qualche uomo) che hanno vissuto l'esperienza dell'aborto sono fondamentali per comprendere appieno le sfumature emotive e psicologiche legate a questo evento. Oltre al dolore e alla sofferenza, emerge spesso anche la possibilità di intraprendere percorsi di rinascita e guarigione interiore.
Questa pubblicazione periodica di testimonianze sul post-aborto offre uno spazio sicuro in cui esprimere i propri sentimenti ed esperienze personali. Troverete storie possono contribuire a sensibilizzare l'opinione pubblica sull'importanza del sostegno alle donne che affrontano un aborto, promuovendo una maggiore consapevolezza sui bisogni emotivi e psicologici.
Pubblichiamo mensilmente le testimonianze e i racconti di post-aborto che ci mandate.
Il racconto dell'operatrice del numero verde per l'aborto: «L’altro giorno ho risentito Alessia, una mamma che avevo accompagnato durante la gravidanza, con cui ogni tanto ci sentiamo ancora. Una situazione complessa, sia lei che il compagno erano molto immaturi ed avevano diversi problemi. Il bimbo è nato ed ora ha compiuto 3 anni. Lei allora ci aveva chiamato perché voleva abortire. Nella telefonata di questi giorni, guardando al passato, nella sua semplicità mi ha detto: “Sono contenta quella volta di avere sbagliato numero!”. Ecco, questi siamo noi. Quelli del numero ‘sbagliato’: chi ci chiama vive difficoltà e solitudine e cerca l’aborto come unica strada per uscirne, poi quando chiama trova una proposta di vita, di amore e di gioia».
La gravidanza, nonostante le numerose paure, procede molto bene, i controlli sono numerosi e regolari, le visite frequenti. Dal suo canto, questo bimbo è cauto e tranquillo durante i primi mesi, poi con la musica si rovescia mille volte in pancia, tanto da essere alla fine podalico e preoccupando tutti per la sua nascita. A sei mesi e mezzo di vita endouterina comincia a scalciare all’ascolto dei canti e delle note, dono per il papà violinista con cui è già in dialogo e unione d’amore: si muove, sussulta e sobbalza.
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Il ritorno a casa dall'ospedale è molto difficile: il peso nel cuore, il seno dolente e i segni del parto si fanno sentire per entrambi: rimane il silenzio, la preghiera, il dialogo a volte anche irruento con Dio, lamento di Giobbe verso il cielo. Proviamo a cadenzare il tempo dell’allattamento rimasto vuoto con la Liturgia delle Ore, per lasciare riempire al Signore tutta la nostra debolezza e fatica. Il mondo attorno a noi non si mostra molto comprensivo e fa fatica a capire appieno la portata di questa perdita, come a testimoniare la difficoltà a sintonizzarsi pienamente con la vita endouterina. Abbracciamo la croce. Preghiamo. Ci amiamo. Frequentiamo assieme un gruppo di preghiera che ci solleva e mette assieme i cocci mentre il Signore costruisce intanto il vaso.... Camminiamo alla Sua presenza discreta e silenziosa.
Dopo qualche anno rimaniamo nuovamente in attesa e accogliamo un altro bambino che, come i suoi fratelli, è affetto da una malattia incompatibile con la vita terrena e che nasce al cielo a venti settimane di gravidanza. Alcuni mesi dopo decidiamo infatti di iniziare a fare il cammino pvv nella comunità della Papa Giovanni XXIII e diventiamo membri a luglio di quest’anno. Apriamo il nostro cuore, le nostre vite e la nostra casa. Intuiamo che forse il Signore, attraverso le nostre vite sofferte e donate, ci vuole far testimoniare la sua bellezza e le grandi benedizioni che sbocciano dal legno della croce.
Decidiamo così di donare tutti i primi oggetti a noi più cari dei bambini andati in cielo: è un peso nel cuore ma “.. là dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore..” ( Mt 6, 19-23). Decidiamo di guardare al futuro con occhi di speranza, di vita e di consolazione. Decidiamo di amare, amare nonostante la tristezza, il fallimento, la fatica. Amare nonostante la paura. Nonostante la morte. Così il Signore piano piano ci mostra i suoi prodigi, il progetto che aveva in mente, il suo ricamo intessuto per noi fin dall’eternità: fare del focolare della nostra casa un luogo di accoglienza, allargare le braccia e il cuore per stare vicino a chi soffre e a chi ha bisogno di cura e protezione.
Nei mesi a seguire arrivano nella nostra famiglia due bambine in affidamento e sperimentiamo l’amore del donarsi, la croce offerta, la gioia della Risurrezione. Nel giardino del risorto incontriamo il Signore che si fa prossimo e ci indica la via. E la via è solo questa, senza sconti, mezze misure, dubbi ripensamenti o voltarsi indietro: amare sempre, amare per primi, amare gratuitamente.
Margherita: ho abortito per mancanza di informazioni
Non so neanche da dove iniziare. Ciò che mi ha spinto non lo so, non riesco a volte a capirlo da sola. Quando succede a una donna, la sensazione che prova nel primo momento è di gioia perché aspetta un bambino. Non è mai di dolore. Però nel secondo momento comincia subito il trauma, il panico, la paura. Perché le motivazioni sono diverse ed ogni motivazione è un dramma a sé, un dramma che una donna vive esclusivamente da sola, senza l’aiuto di nessuno.
Io ho vissuto due drammi, quindi per due volte sono caduta sotto la croce di me stessa, e mi sono dovuta rialzare. La prima volta è stato un incubo fatale, perché abbiamo perso la cognizione di qualsiasi cosa, davanti a me esisteva solo il panico e la paura. Non sapevo se volevo morire o vivere. A un certo punto ho addirittura dimenticato che aspettavo un bambino. Ero talmente presa da tutti questi sintomi strani che la gravidanza mi aveva dato fin dai primi giorni che sono andata in pallone, tanto che non riuscivo a comprendere niente.
La prima volta non c’è stato nessuno e neanche nella seconda c’è stato qualcuno che mi abbia potuto aiutare e dirmi che mi stava vicino. Non cercavo una persona che mi stesse vicino così, in maniera superficiale, ma una persona esperta, che sapesse quello che accade in una gravidanza. Per quanto i familiari vogliano bene, hanno sempre paura della salute di una figlia, di una moglie e così via. Sono andata dai dottori, e non c’è stato nessuno che mi abbia detto: «Lo può tenere, signora; cerchiamo di fare il possibile, di aiutarla riguardo ai sintomi che le si manifestano».
Avrebbero dovuto spiegarmi perché avevo questi malori e non arrivare a farmi prendere dal panico. Quindi il primo aborto successe in uno stato di confusionale mentale di cui non mi sono resa conto e neanche mi rendo conto ancora adesso. Dopo questo fatto, ho avuto incubi per mesi e mesi, mi vedevo strappare questo bambino e buttarlo giù in una fossa. E avevo giurato che non l’avrei mai più ripetuto perché amo molto i bambini, e per me i bambini sono la cosa più bella della vita. Perché anche noi siamo stati bambini, e quindi è la vita.
E invece… quando mi trovai per la seconda volta in queste condizioni avevo 43 anni ed è un’età in cui non è facile. Però ero stata felicissima, devo dire che ero contenta i primi giorni. E non avevo deciso di abortire, avevo deciso che l’avrei tenuto a qualunque costo. Questo per dieci giorni, neanche. I miei figli erano contenti, mio marito mi ha detto di fare quello che mi sentivo. Incominciai però ad avere lo stesso panico e la stessa paura.
E non avevo nessuno. In questo caso ero anche più consapevole: sapevo quello a cui stavo andando incontro. Mi sono chiusa in un mondo tutto mio fatto di un muro di ghiaccio, perché non volevo nessuno. Per sei mesi non ho voluto vedere più mio marito, non volevo che mi toccasse con un dito. Prima di andare dai medici per la visita, avevo assunto della penicillina e altre medicine per un piccolo virus alla gola che si era propagato. Ho pensato che con tutti quei medicinali, il bambino potesse anche non nascere normale. Ma non c’era nessuno che mi spiegasse qualcosa.
Dopo me lo hanno detto, quando avevo già abortito, che tante sono le donne che prendono medicinali del genere e hanno dei bambini. Dopo. Voglio dire che mi hanno aiutato ad abortire, mi hanno agevolato sull’aborto e molto. Non c’è stato nessuno che mi abbia preso per la mano e detto: «Margherita, vediamo cosa fare». Anzi ho trovato indifferenza totale, anche nelle strutture medico sanitarie, dove una donna a volte va, per cercare aiuto. Vai da sola, affronti quello. E non ti rendi conto che poi sei lì ma vorresti scappare via, e ti vorresti chiedere: «Ma Signore perché non lo posso tenere? Perché non c’è qualcosa che mi freni questi mali che sento, questa paura»? Non c’è.
Se non c’è nessuno, io sono colpevole, però anche voi davanti a Dio, davanti a tutti, siete colpevoli con me; non possono essere innocenti neanche i dottori. Non possono esserlo, perché se io mi porto il mio dramma, anche loro se lo devono portare sempre, perché non mi hanno aiutato. E quindi quei bambini che non sono nati, anche loro li hanno uccisi. E allora bisogna pregare anche per loro. Perché cerchino di capire che ci sono tante ragioni che spingono una donna e che ognuna di loro vive un dramma diverso: chi è spinta da problemi economici, chi concepisce il bambino e poi rimane sola.
E allora perché non ci sono degli studi in cui uno psicologo, o qualcuno che abbia amore, che abbia fede, possa spiegare anche questi valori della vita? La mia vita è stata rovinata dalla mancanza di informazioni adeguate e dall’indifferenza della gente.
Alle 15 ricevo al numero verde aborto la richiesta di una donna che chiede aiuto e vive nella mia regione. Appena posso la ricontatto. Alle ore 16 mi risponde una voce giovane e timida. La sento impacciata e timorosa, ma pian piano la sua voce si fa sempre più sicura e determinata. Ha 22 anni, è di 6 settimane. Inizia a prendere il suo coraggio di ragazza e si apre in un fiume di parole.
Come sempre faccio, lascio spazio al dialogo e cerco di costruire quel clima di empatia e tranquillità. A un tratto della telefonata, mi sento dire…«Non ci conosciamo, ma sento di poter fidarmi di te, mi sento al sicuro e sento di poter esprimerti il mio malessere, una strana esperienza che non mi è mai capitata, generalmente sono chiusa e diffidente»…. sorridiamo insieme e ci lasciamo con un «A presto», breve; le dò la mia disponibilità per qualsiasi momento, anche nelle ore notturne mi potrà cercare nuovamente.
Ora Silvia doveva andare, c’era troppa gente intorno a lei.
Verso la mezzanotte iniziamo a messaggiare, è l’unico modo per poter parlare senza destare sospetti: Silvia vive con i suoi genitori in un piccolissimo paesino del Sud con pochi abitanti. Resistono ancora quei tabù per cui le ragazze madri sono un problema per tutta la famiglia.
La sua richiesta di aiuto nasce dalla consapevolezza che il suo ragazzo non è la persona giusta per lei.
Già da tempo gli ha espresso la scelta di prendersi una pausa da quel rapporto di 5 anni, non sano, fatto di controllo e di gelosie.
Silvia ha deciso di non digli niente della sua gravidanza; ora si sente in gabbia, il suo futuro è una prigione: un figlio lega per sempre.
Nei giorni successivi ci sentiamo regolarmente, ma Silvia è sempre più decisa ad abortire, inizia a vedere dove farlo, studia la metodologia della pillola, trova l’ospedale e mi chiede di accompagnarla. È sola, nessuno sa niente, lei ha la scusa dell’università, si può allontanare per alcuni giorni.
Accetto di accompagnarla, poi — le dico — me ne sarei andata. Potrò — penso — decidere di rimanere a sua insaputa; sarebbe stata una scelta solo mia, per abbracciare Silvia alla sua uscita dal reparto.
Ad un certo punto però si organizza, trova il medico che le fa il certificato di ricovero e questo è l’ultima notizia che mi dà…. la perdo, non mi risponde più e il suo cellulare risulta chiuso, è il 13 Maggio.
Martedì 11 giugno alle 20, mi arriva un messaggio inaspettato… «Ciao ho deciso di tenerlo..ho ascoltato le tue parole….»
Silvia cara!!!
Tutte le sue paure sono svanite! Oggi è iniziata una nuova vita e Silvia ne è la protagonista, libera nella scelta e capace di proteggersi da ogni laccio, ha trovato il modo di affrontare la sua vita e stranamente con l’aiuto della sua famiglia… un aiuto inatteso…
A distanza di ormai tre anni e poco più dal mio aborto vorrei raccontarmi: sono una ragazza di 25 anni che proviene da un paesino sperduto. Sono una ragazza come tante convinta della parità tra uomo e donna; ho sempre creduto che donna non voleva solo dire casa, pulizie. Diciamo: non son mai scesa in piazza ma nel mio piccolo mi battevo.
Poco più di 3 anni e mezzo fa ho fatto l’esperienza più brutta della mia vita: ho abortito. Appena letto il risultato del test di gravidanza, non stavo più nella pelle, ero felicissima, dentro di me si stava realizzando un miracolo; il miracolo della vita. Che emozione accarezzarmi la pancia ed aver la consapevolezza che li dentro sarebbe cresciuto un nuovo essere umano. Subito mi ha assalito la paura, paura di non essere all’altezza, di non meritarmi questa gioia. In questo periodo son stata lasciata dal ragazzo… Ho cercato conforto e aiuto dalla mia famiglia, ma mi son trovata tutte le porte chiuse; sentendomi sola mi son lasciata convincere che la cosa migliore per me ed il mio piccolo sarebbe stato abortire.
Cosa più sbagliata non potevano dirmi ! L’aborto crea due vittime: in primis il bambino ma non da meno anche alla donna schiacciata da questo vero e proprio trauma. Dopo l'aborto ho passato anni ad avere incubi e nella mia mente come un chiodo fisso c’era il mio bambino mai nato; così mi ribellavo a tutto ed ho dovuto costruirmi una corazza. Ora poco per volta sto iniziando a perdonarmi, riscoprendomi.
Io so che la ferita che ora ho dentro farà molta fatica a rimarginarsi e resterà sempre impressa nella mia mente come un tatuaggio indelebile.
Io credo ancora che la donna sia più importante di quello che questa società malata di apparenza ci fa vedere. Ma ora ritengo che sia proprio una sciocchezza affermare “L'utero è mio e lo gestisco io, ogni donna è libera di scegliere".
Mai scorderò quella camera d’ospedale. In quello stanzone c’erano altre ragazze che come me erano lì sole, in un silenzio di tomba prima che iniziassero a chiamarci per andar in sala operatoria. Poi a tutte son scese delle lacrime silenziose.
Mi sono unita ai gruppi di preghiera che si ritrovano davanti all'ospedale della mia città nel giorno in cui sono programmati gli aborti; qui la mia ferita trova un po’ di sollievo e di disinfettante. Sono diventati dei momenti, pur limitati, che dedico a me stessa ed al mio piccolo. Il mio sogno e augurio, che voglio estendere a tutte le donne ferite dalla scelta dell’aborto, è di poter ospitare nuovamente il frutto del miracolo della vita.
La storia di post-aborto di Aisha è raccolta da Paola Dalmonte, che risponde al numero verde della Comunità Papa Giovanni XXIII per le richieste di aiuto nel post aborto:
Saputo della gravidanza il compagno di Aisha ha preso le distanze dalla sua paternità; aveva già una figlia, un’esperienza faticosa che non voleva ripetere. Non ha dimostrato nessuna considerazione per il desiderio di Aisha di essere madre. Aisha arrivata alla 20ª settimana di gravidanza ha deciso di abortire.
Aisha dopo l'aborto ha lasciato il suo compagno. Racconta Paola: «Così sono iniziate giornate in solitudine, nessuno a cui raccontare quel vissuto, la mente non era occupata nemmeno da un lavoro perché Aisha l’aveva lasciato». Aisha ha iniziato a cercare su internet dove vanno a finire i bimbi abortiti.
Nel maggio 2019 è stata posta una lapide in ricordo dei bambini non nati nel cimitero di Fossano (CN)
Foto di Andrea Fea
La lapide per i bimbi non nati posta nel cimitero di Fossano
Foto di Daniela Giorgis
La sua richiesta è stata raccolta da Paola (qui il racconto integrale): «L’ho accompagnata — racconta — all’ospedale dove si trovava il corpo di Yahya. Poi abbiamo preso contatto con l’agenzia di pompe funebri che non aveva mai fatto il funerale di un piccolino così… piccolo. Il responsabile si è così commosso che ha voluto farle un considerevole sconto. E ha voluto essere presente. Il giorno del funerale eravamo solo noi e cinque addetti cimiteriali. Abbiamo piantato una primula gialla in quella terra ancora fresca su cui è stato messo un paletto con un numero, il 310. Aisha ha scelto di chiamare Yahya, che in italiano si traduce in Giovanni».
«È stata per me una situazione molto pesante, e sentivo di volermi ribellare. Inoltre ho vissuto l’impotenza di essere padre in uno Stato che, con la legge 194 non tutela né il nascituro, né le idee dell'uomo. Il papà viene totalmente ignorato nella scelta della madre sull'interruzione di gravidanza. Di questo me ne sono reso conto quando riuscii a contattare telefonicamente il ginecologo che avrebbe poi praticato l’aborto.
Nonostante le mie suppliche, mi confermò che la decisione spettava solo alla donna. Solo con il passare degli anni, riflettendo su questi momenti, e dopo aver fatto un percorso di pacificazione interiore, mi sono sforzato di mettermi nei panni di questa donna che, consapevole o meno, ha preso questa decisione. Ho cercato di comprendere quale strazio deve aver vissuto la sua coscienza, nel negare la sua femminilità e la maternità. Solo questo mi ha permesso di superare il dolore e le sue conseguenze».
È un soffio celeste,
un raggiare di luce:
dal Cielo scende la vita ...
su ogni piccolo d'uomo,
su ogni gemma in fiore:
sboccia gioiosa, s'apre
sul mondo,
un piccolo si gira e
salta "giocando"
nel "grembo materno"
e che sia Gioia per sempre
fra il Cielo e la terra,
fiorisca per sempre la vita
una festa di luce
così sia.